La Ricca, la Santa e la Grande, così si potrebbe chiamare questa terza e ultima parte del racconto di viaggio. Stiamo parlando di tre città Gyumri, Echmiadzin e Erevan, la capitale.

Da Stepanavan e Gyumri si percorre una bella strada montana tra montagne innevate, strada a percorrenza veloce, per cui in un’ora e mezza scarsa si giunge nella seconda città del paese, per numero di abitanti. E’ una città antichissima, si pensa fondata dai Cimmeri o dai Greci tra l’VIII e il VII secolo a.c. con il nome di Kumayri e ben conosciuta da Senofonte. Fu una città fiorente, che, come Kars, era un crocevia di commerci, pellegrini e sfortunatamente per lei di eserciti. Seguì quindi tutte le invasioni della zona, dopo la caduta degli Arsacidi: Sasanidi prima, Romani poi (dopo la breve parentesi del regno autonomo dei Bagratidi), Selgiuchidi, Mongoli, Turcomanni (della pecora bianca e della pecora nera), Safavidi e infine Russi nel XIX secolo. Dopo la guerra russo-persiana del 1813, l’antica Kumayri entrò a far parte della superpotenza zarista, divenendo una delle città più vivaci della regione caucasica. Nel 1837 Nicola I vi costruì una fortezza, la Fortezza Nera, e ribattezzò la città Alessandropoli, in onore della moglie Carlotta di Prussia, che essendosi convertita alla confessione ortodossa, venne ribattezzata Alessandra. Centro nevralgico delle frontiera russo-turca subì uno sviluppo impetuoso: grandi chiese, 31 centri di produzione artigianale e industriale (birra, tessuti, sapone, ceramica, armi) e così restò per tutta l’epoca sovietica, quando, dopo la morte di Lenin venne ribattezzata Leninakan. La città venne devastata dal terremoto del 1988 che la rase quasi al suolo e ne fece diminuire di un terzo gli abitanti. Fu un vero trauma da cui Gyumri si sta ancora riprendendo, cercando di ricostruirsi florida come un tempo: girando per il centro città si notano edifici in ristrutturazione o ricostruzione completa, in stile “cheval du siècle” che denotano quanto fosse benestante la città in quel periodo. Il centro è una serie di vie parallele e perpendicolari ricche di ville e palazzi liberty, una grande piazza centrale (piazza Vartanants, dove sta il municipio) e due maestose chiese del XIX secolo: Santa Madre di Dio e San Salvatore. La prima è degna di nota per il suo altare con una decoratissima iconostasi; la seconda è famosa per i suoi colori (arancione e nero) e per essere stata l’orgoglio della chiesa armena, poiché ricalcava la vecchia Cattedrale di Ani, ora in rovina in Turchia. San Salvatore non sopravvisse al terremoto del 1988 e crollò quasi completamente. Il restauro trentennale, usando quasi esclusivamente le pietre rimaste, la sta riportando all’antico splendore. Davanti a lei il monumento di ringraziamento ai benefattori che aiutarono il paese a riprendersi dopo il terremoto. Da vedere in città oltre al museo della città (una bella palazzina in stile liberty), la casa di colui che forse è il più grande filosofo armeno contemporaneo: George Gurdjieff, che vi nacque forse il 14 gennaio del 1877. La casa ha solo un valore simbolico per gli appassionati di filosofia, perché, sita nel quartiere greco della città, è tuttora abitata.

Le vere attrazioni però sono ai margini della città: la Fortezza Nera e la grande statua della Madre Armenia. La Fortezza, rotonda, compatta, in tufo nero, voluta da Nicola I, è ora un museo in cui si possono vedere cannoni, armi, litografie del XIX secolo oltre all’appartamento dello zar, con gli arredi di lusso originali, fatti pervenire dalla Russia, dove erano stati trasferiti: cassepanche, scrivanie, tavoli, sedie, letti e divani, finemente decorati per il comfort dello Zar. In inverno non c’è praticamente nessuno, si può girare con calma, godere del panorama della città senza folla e scambiare due chiacchiere con il custode che ci ha spiegato volentieri in russo la storia della fortezza e degli arredi, di cui abbiamo detto poco sopra. Vista la simpatia reciproca e la propina che gli abbiamo lasciato per la spiegazione (per noi poca cosa, per lui forse la retribuzione giornaliera), dato che eravamo gli unici visitatori quella mattina, ci ha aperto una parte del museo normalmente chiusa in cui si trovano un profondo pozzo, palle di cannone e stampe della vecchia Gyumri (vedute della città e costumi) e la cappella dove celebrò messa Papa Francesco nel 2016. Dato il freddo pungente di quella mattina di febbraio (circa 12° C sotto lo zero termico), ci ha anche offerto un caffè all’armena, simile a quello turco (ma non diteglielo) e ci ha raccontato un po’ vita e politica, tra corruzione, bassi stipendi e patriottismo: in particolare come la seconda guerra del Nagorno Karabagh stia lasciando una nuova profonda ferita nel popolo armeno con molte giovani vite perse nel conflitto (tra cui suo fratello). Anche speranza per i giovani e rassegnazione, senza illusione, per avere come unico alleato la Russia che di certo, quando lo fa, non elargisce ausilio gratuito.

Poco distante dalla Fortezza si trova la statua della Madre Armenia, che fa parte di un enorme memoriale della II Guerra Mondiale di epoca sovietica. Donna di rame dalla bellezza classica statuaria, avvolta in drappi greci, nel lato rivolto verso l’Armenia la Madre ha un’espressione pacifica e forte, solenne, e tiene in una mano un ramo di palma e nell’altra la corona di Zvartsnots, che simboleggiano il lavoro pacifico e la bellezza dell’architettura armena. Il lato che guarda verso il confine turco sembra invece uno strano rettile che agita una zampa minacciosamente, dove il muso è fatto dai capelli al vento della ragazza e le zampe dai drappi svolazzanti del vestito. 

Percorrendo una strada a larghi tratti veloce, che va dalle montagne innevate alla più brulla piana di Erevan, si arriva a Echmiadzin, la città più sacra d’Armenia, sede del Catholicos (dalla fondazione al 500 circa e dal 1440 ad oggi). Qui si trova il cuore spirituale dell’Armenia, la Cattedrale della Santa Madre di Dio, fondata per volere di Gregorio Illuminatore. Gregorio ebbe una visione di Cristo che scendeva dal cielo e colpiva il suolo con un martello d’oro per mostrare il luogo dove sarebbe dovuta essere costruita la Cattedrale. Il patriarca diede quindi alla chiesa e alla città il nome di Echmiadzin, che significa “il luogo dove discese l’Unico Figlio”. L’altro nome della città è Vagharshapat, poiché il re Vagharsh I la rese capitale del regno nel II secolo . La Cattedrale venne costruita agli albori del IV secolo, subendo molti restauri fino al XVIII secolo, epoca in cui vennero completati gli affreschi interni. Oltre all’imponenza e alla bellezza degli affreschi (è una delle poche chiese in cui gli affreschi non sono andati sbiadendosi e cancellandosi nel tempo) , la chiesa è famosa per un ricco reliquiario ed è inserita nel complesso della Santa Sede della Chiesa armena, che comprende un vasto parco, un centro di studio, il battistero, l’altare all’aperto e la residenza del Catholicos. Poco distante dalla sede apostolica si trova un’altra chiesa storica, quella di Santa Gaiana, sorta sul luogo del martirio della badessa per ordine del re Tiridate III, che la fece uccidere, dopo che la suora rifiutò le sue lusinghe. Composta da tre navate, costruita nel VII secolo, salvo qualche restauro l’impianto della chiesa è rimasto praticamente lo stesso da 1400 anni. Visitarla significa fare un tuffo nel passato di quasi 14 secoli. La storia di Gaiana è legata a quella di un’altra martire, Ripsima, sua compagna di fede, che fuggì da un matrimonio organizzato con Diocleziano e riparò in Armenia assieme alla sua superiora Gaiana e che venne martirizzata anch’ella da Tiridate III. E infatti si trova sul luogo del martirio e del mausoleo della santa, l’omonima chiesa, coeva a Santa Gaiana. Ha una struttura più piccola e ha subito più rimaneggiamenti, ma al pari delle precedenti, anche Santa Ripsima è patrimonio UNESCO. Così come lo è il parco archeologico di Zvartsnots che ospita i resti di una delle più grandi cattedrali del medioevo, quella di San Gregorio, voluta da Narsete III, alla fine del secolo VII. Restò in piedi per 200 anni prima di crollare o per colpa di un terremoto o per le invasioni persiane. Il tempio fu costruito al centro di un piedistallo a sette livelli. Esternamente era un edificio unificato a tre livelli, successivamente decrescenti, di 3 volumi cilindrici armonici, il primo dei quali contava 32 arcate per 32 metri di diametro. Era sicuramente più alto di 30 metri e alle sue spalle si staglia l’Ararat. Quasi poetico vedere come le maestà naturali resistano a dispetto delle opere dell’uomo che molto più sovente rovinano per il tempo e per gli eventi della natura stessa.

Echmiadzin, il sancta sanctorum della chiesa armena, è a soli 20 km dalla capitale Erevan, cui dedichiamo l’ultima parte di questo reportage. Erevan, col suo milione e centomila abitanti è la città più popolosa di Armenia (vi risiede un terzo degli abitanti), con una superficie doppia rispetto a quella di Milano, un’altezza media di quasi 1000 metri slm, è il cuore economico pulsante del paese. Dell’antica città di Erebuni, capitale del regno di Urartu (Ararat), grande rivale dell’impero assiro, non è rimasto pressoché nulla, se non le rovine della antica fortezza (VIII secolo a.c.), ai margini sud-orientali della città. Su una collinetta si stagliano i resti di mura ciclopiche e dei vecchi templi della religione politeista pre-zoroastriana. Posta all’incrocio tra le rotte carovaniere dall’Europa e dall’India, fu oggetto di tutte le travagliate conquiste della zona caucasica: achemenidi, macedoni, artassidi, arabi, mongoli, turcomanni, fino ad essere uno dei centri nevralgici della frontiera tra impero safavide prima e qajaro poi e ottomano. Come tutta l’Armenia divenne parte dell’impero russo, che la strappò alla persia nel 1828. E la piccola e martoriata città di Erevan, la cui popolazione armena aveva subito un calo demografico importante, divenne la capitale del nuovo Oblast e iniziò a crescere. Industrie, seminari, strade, linee telefoniche e telegrafiche, scuole e nuove chiese: nel giro di 90 anni la città rifiorì e la diaspora armena nei territori persiani e turchi tornò a popolare Erebuni, che fu anche fulcro della resistenza nel 1918 contro l’armata ottomana, che infine venne sconfitta proprio nei pressi di Erevan. Alle soglie dell’era sovietica era una città in via di sviluppo ma ancora ricca di un dedalo di vie, vicoli, viuzze, vecchi edifici in legno, fattorie cittadine. L’attuale assetto della città risale all’intervento urbanistico sovietico che trasformò la città in una moderna metropoli industriale e tecnica con l’apertura delle accademie scientifiche e artistiche. Fu un intervento che sventrò in maniera traumatica la vecchia città ma che le regalò un centro nuovo, ricco di parchi pieni di statue, di edifici in stile razionalista (palazzi del governo, municipio, Grand Hotel, il Metandaran, il museo di storia nazionale, il palazzo dei sindacati, il Teatro dell’Opera) racchiusi tra Piazza della Repubblica, il Parco della Cascata e il Memoriale del Genocidio. Le periferie, per converso, non offrono molto. Tolta la fortezza di Erebuni, girare Erevan significa girare il centro città, che si può girare a piedi, se ci si arma di buona volontà. Crediamo che una tappa obbligatoria sia una visita guidata alla distilleria dell’Ararat, il famoso e squisito brandy armeno. La visita va prenotata con anticipo e si svolge in lingua o armena o inglese. Un tour tra i vari passi della produzione del brandy, tra la storia del marchio, curiosità del prodotto, che si conclude con una degustazione di brandy (invecchiato 3, 7 e 10 anni) e cioccolato.

20 minuti a piedi e si giunge al Memoriale del Genocidio Armeno, costruito nel 1967 per commemorare il milione e mezzo di vittime armene, deportate, torturate e uccise dagli ottomani sotto il governo dei Giovani Turchi (senza dimenticare le persecuzioni del sultano Abdul Hamid II a fine ‘800). Il Memoriale è estremamente suggestivo: una stele di 44 metri, affiancata da un cerchio di dodici lastre di pietra, all’interno del quale arde la fiamma eterna in ricordo della vittime; a coronare il tutto un piazzale, un muro di pietra, della lunghezza di cento metri, fiancheggiante il viale di accesso al Memoriale su cui sono incisi i nomi delle principali città e località colpite dal Genocidio e un Parco della Memoria, dove vengono piantati da personalità armene e straniere alberi in memoria delle vittime. Sotto il memoriale c’è il Museo del Genocidio che si compone di una parte che riguarda i fatti e gli antefatti del 1915 e un’altra che si concentra invece sul ruolo delle comunità armene nelle città turche e greche del Ponto. Impossibile non rimanere fortemente impressionati e amareggiati, anche per il mancato riconoscimento unanime del Genocidio, che ancora priva un popolo della legittimazione della sua ferita storica e il tutto per ragioni squisitamente di convenienza politica.

Dopo una visita al Museo di Storia Nazionale, ancora in parte in allestimento, è bello fare un giro al Parco della Vittoria (della seconda guerra mondiale), dove è sita una grande statua di 51 metri della Madre Armenia e il monumento al milite ignoto. Il Parco è collegato al centro città da un altro parco, quello della Cascata. Quest’ultimo si compone di tre “momenti”: in cima una colonna di basalto che celebra il cinquantesimo della nascita dell’Armenia Sovietica e dal cui terrazzo si gode della vista dell’Ararat e della città di Erevan; il secondo “momento” architettonico è una scalinata di 572 gradini, larga 50 metri, lunga 302, ricca di fontane, cascate, bassorilievi e statue, costruzione iniziata nel 1971 e terminata nel 2009 (cui manca solo il pezzo finale per collegarla al monumento); il terzo è un parco, ai piedi della scalinata, in cui sono esposte sculture di artisti famosi quali Botero, Barry Flanagan, Jaume Plensa, Lynn Chadwick e che si congiunge al Teatro dell’Opera. 

Erevan è anche la sola città in cui c’è vita notturna (nelle altre città non ci sono locali e se ci sono ristoranti chiudono alle 10 di sera) tutto l’anno: ristoranti, bistrò, panifici, fast food. E se a Gyumri abbiamo mangiato stufato di carne di manzo e patate, con un mix di pane tipico (non solo il lavash che è una specie di piadina) e formaggi di capra, qui a Erevan si possono gustare tutte le varietà di cibo: ci sono molti ristoranti esotici e il turismo russo spadroneggia. Vale la pena di cercare ristoranti tipici: khachapuri, arishta (tipica pasta armena), spiedini di cuore e fegato, zuppa di yogurt e lenticchie, agnello arrosto e insalate all’armena (pomodoro, cetrioli, cipolla, mentuccia e barbabietola). Tra i locali più famosi, a ragion veduta, è la Taverna Erevan, dove la cucina locale è accompagnata da esibizioni musicali in costumi locali. 

Finisce da dove è iniziato, il nostro giro per un paese che di inverno offre paesaggi suggestivi che accompagnano il viaggiatore tra un monumento antico e l’altro; un paese ancora per certi tratti arretrato (se ovviamente comparato all’Europa occidentale) ma che a livello artistico e culinario ha molto da offrire. Un paese con ferite aperte che racconta una storia più che bimillenaria.

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