Di Magali Prunaj
Vi ricordate i vostri giocattoli preferiti di quando eravate piccoli? Io sì.
Pur non amando particolarmente le bambole, il mio gioco preferito era proprio un bambolotto: occhi verdi come me, capelli disegnati sulla testa che accennavano al rosso, camiciola bianca e tutina celeste. Si chiamava Gabriele e amavo cullarlo, parlarci e dargli tanti baci e affermavo decisa che un giorno avrei avuto un figlio uguale a quel bambolotto. Insomma, un gioco comune a tutti i bambini e che tutti i bambini dovrebbero poter fare.
Figli, per ora, non ne ho avuti ma ho quattro nipoti che vanno dai 27 ai 3 anni. Se il primo l’ho preso in braccio a neanche 9 anni e lo avevo scambiato per un compagno di giochi del mio bambolotto, l’ultimo è stato messo fra le mie braccia che avevo già superato i 30 anni ed ero perfettamente in grado di distinguere un giocattolo da un bambino vero, soprattutto annusato il primo vero pannolino sporco.
Non potrò mai dimenticare lo sguardo di terrore del nipote più piccolo mentre nella sua testa lo tradivo dall’immenso amore che mi stava dimostrando portandolo al patibolo: sdraiarlo sul fasciatoio per un lavaggio nasale. Ed è proprio a quello sguardo, di paura e terrore, che implora aiuto, ho pensato e continuo a ripensare ogni volta che sento parlare dei tre bambini morti di sete in mezzo al mare.
Avevano uno, due e dodici anni e sono morti, con altre tre donne, mentre affrontavano il viaggio della speranza, un viaggio che li ha portati alla deriva in mezzo al mare senza cibo né acqua. Un viaggio che li ha portati alla morte.
Quando siamo piccoli, molto piccoli, non sappiamo bene cosa accade intorno noi e guardiamo ai nostri genitori come a dei maestri di vita, che sanno sempre cosa fare, conoscono sempre la risposta giusta. Un genitore ha sempre la soluzione, anche nelle situazioni più complicate.
Con quali occhi quei bambini avranno guardato la madre o il padre o entrambi chiedendo acqua? Con quale disperazione avranno pianto, un pianto di sofferenza, sentendosi abbandonati, persi, senza più la loro àncora di salvezza? Cosa avrà pensato quel ragazzo di 12 anni, abbastanza grande per affrontare un viaggio del genere, abbastanza grande per morire ma che in quel momento pativa la pena dell’assettato e dell’affamato, rivolgendo il suo sguardo disperato, di bambino, alla madre o al padre in cerca di aiuto, in cerca di una spiegazione?
Ma quale può essere la spiegazione davanti a una barbarie simile, davanti alle navi che avvistati i naufraghi hanno tirato dritto per la loro strada, senza dare soccorso, un soccorso vero e non quello fittizio di chi cerca di tenersi la coscienza pulita lanciando, a caso, qualche bottiglietta d’acqua?
Adesso un erudito, qualcuno di più esperto di me scriverebbe un discorso altamente enfatico e toccante prendendo in prestito le parole di Primo Levi (“considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno”), ma non è più tempo per la retorica.
E’ giunto il momento di mettere da parte la “filosofia” e di pensare, di agire, di fare. E’ giunto il tempo di ricordare. Di ricordare come eravamo noi. E di pensare, pensare cosa avremmo fatto in quella situazione, cosa avremmo provato. E’ giunto il momento di prendere una decisione e di pretendere soluzioni, perché comunque la si pensi non si può morire di sete a un anno in mezzo al mare.