di Prisco Piscitelli
All’indomani della crisi politica innescatasi in Italia, da più parti si moltiplicano gli appelli al voto per dare immediatamente la parola agli italiani. I più critici nei confronti dei sindaci e dei manifestanti scesi in piazza per chiedere a Draghi di restare (una campagna che rievoca il britannico “remain” anti-Brexit, del tutto inedita per l’Italia del “piove: Governo ladro”) sono tutti concordi nell’affermare che le elezioni rappresentano l’unico vero strumento democratico. E qui sta il problema, perché nel corso dei 75 anni della nostra Repubblica anche il voto popolare è stato colpito al cuore dalla crisi della politica. Proviamo a guardare le cose con oggettività e scopriremo le ragioni che tolgono a molti italiani ogni entusiasmo per la prospettiva elettorale quale panacea che dovrebbe miracolosamente risolvere i problemi del Paese.
Innanzitutto c’è l’astensionismo dettato dalla sfiducia nell’attuale classe politica e negli stessi strumenti a disposizione dei Governi per affrontare le grandi questioni che avviliscono la vita degli italiani: l’impoverimento e la perdita inesorabile del potere d’acquisto conseguente all’introduzione dell’Euro con la formula del cambio Lira-Marco (giova ricordare che nel 1992, l’ultimo anno di Prima Repubblica, un dollaro valeva 1000 lire), i salari più bassi d’Europa in ogni comparto pubblico e privato, la spesa privata per la salute, le liste d’attesa e la marginalità della Ricerca Scientifica, il peso del fisco e delle tassazioni regionali o comunali, l’assenza di meritocrazia e la fuga dei giovani all’estero. Va da sé che dare la parola agli Italiani quando ci si aspetta che quasi la metà di loro non vada a votare dimezza in partenza la valenza delle elezioni generali a cui molti protagonisti della scena politica (talora sconosciuti) non si stancano d’inneggiare con toni “veraci”.
E poi c’è l’altra questione cruciale che gli Italiani sembrano avere ben presente: andare alle elezioni per eleggere chi? Si tratta di una domanda che sorge spontanea non esistendo più nessun tipo di processo di formazione e selezioni della classe dirigente, in tempi di parlamentari nominati dall’alto dai leader di partiti o movimenti sempre più personalizzati, sempre più improvvisati, senza legami coi territori in quanto non è consentito all’elettore di scrivere sulla scheda elettorale il nome del proprio rappresentante locale (esattamente come avveniva per i listoni delle leggi fascistissime del 1924). Insomma, tramontata la breve illusione che in Parlamento andasse bene “chiunque”, gli elettori sanno molto bene che andare al voto non fornisce nessuna garanzia di sostituire gli attuali parlamentari e l’attuale Governo con delle personalità in grado di affrontare i problemi del Paese, amplificati da una crisi internazionale senza precedenti dalla Seconda Guerra mondiale. Se poi si parla nello specifico della figura dell’attuale Presidente del Consiglio (di certo non uno “qualunque”), appare scontata l’impossibilità di paragonare prestigio e competenze di Mario Draghi con un “qualsiasi” altro papabile candidato, sia scelto tra i leader di partito o peggio sorteggiato tra i tecnici militanti di prima o terza fascia come avvenuto all’indomani delle ultime elezioni.
Gli italiani hanno ben compreso che – a differenza dell’estate del Conte Bis – oramai si può anche andare a votare, essendo alle porte la fatidica data del 20 Settembre con l’automatico diritto alla pensione da parlamentare maturato per ciascun aspirante statista di questa Legislatura (anche per quelli che volevano abolirle). Tutti sappiamo bene che le elezioni – pur rimanendo lo strumento principe della democrazia – non risolveranno “nessuno” dei nostri problemi, tranne quello di far ritornare alle precedenti occupazioni molti degli attuali deputati e senatori, privandoci al contempo di Mario Draghi, di cui i famigerati “grandi elettori” di partito non hanno voluto l’ingombrante presenza al Quirinale, richiamando Mattarella dalla pensione (questa sì pluri-meritata), a riprova della grave crisi della nostra democrazia rappresentativa, cui gioverebbe l’elezione diretta del Capo dello Stato (ma per queste elezioni guarda caso nessun “grande elettore” si sbraccia).
C’è molto da “lavorare” anche da parte di noi cittadini in ogni aspetto della nostra socialità quotidiana (ed è pure questo il “lavoro” su cui dovrebbe fondarsi la Repubblica), perché la politica recuperi la capacità di selezione di una classe dirigente all’altezza del Paese e si ritorni a una piena partecipazione democratica anche prima e dopo le elezioni. Non è infatti pensabile che i cittadini siano chiamati a “vivere” la Democrazia solo al momento del voto senza altre forme di partecipazione attiva e associativa (spazi una volta garantiti dai partiti). Nel frattempo al voto dunque, perché la Democrazia trionfi sempre e comunque. E che vinca chiunque, ciascuno o nessuno, non importa chicchessia. Viva l’Italia: popolo di santi, poeti, navigatori, ma soprattutto di grandi elettori e sempre più piccoli eletti.