Di Andreas Massacra
Il più celebre dipinto di Giovanni Pellizza da Volpedo è senza dubbio il “Quarto Stato”. Un dipinto dalle grandi dimensioni (293×545 cm), che ha richiesto almeno 10 anni di preparazione e che è ricco di significato.
Pellizza, socialista, era partito nello studio di un dipinto che in qualche misura rappresentasse l’avanzata della questione sociale e l’emergenza della nuova classe sociale, già nel 1891 con l’opera “Ambasciatori della fame” . Nel 1895 condusse un nuovo studio preliminare, in olio, dal titolo “La fiumana”. Un dipinto più vivo rispetto al precedente, qui la protagonista è “una massa vivente e palpitante, piena di speranze umili o di minacce oscure”.
A condurre l’artista alla fattura definitiva del suo capolavoro furono i moti del pane di Milano nel 1898, una delle pagine più nere dell’Italia liberale. Il pane nella città meneghina, forse più che altrove nella penisola, era l’elemento base per le classi meno abbienti. Nel 1897 la scarsità del raccolto dei cereali provocò un aumento del costo del pane. Le manifestazioni a Milano si ingrossavano e si moltiplicavano di giorno in giorno. Il 6 e il 7 maggio, su spinta dei gruppi socialisti milanesi, la città si riempiva di operai, le piazze erano gremite e gli scontri con le forze dell’ordine non tardarono ad arrivare. L’8 maggio il generale Bava Beccaris, che aveva ricevuto la gestione dell’ordine pubblico dal prefetto, stabilì di sparare colpi di artiglieria pesante e leggera sulla folla. I bombardamenti sulla folla andarono avanti per altri due giorni. Alla fine si contarono 83 morti e quasi 500 feriti.
La brutale repressione del popolo affamato e la susseguente ignobile decorazione di Bava Beccaris, portarono il pittore di Volpedo a voler riprendere la “Fiumana” per rendere l’opera più realistica, più “verista” possibile. L’opera venne completata nel 1901 e rappresenta dei lavoratori in marcia pacifica ma decisa e inevitabile: l’imporsi della classe operaia, il Quarto Stato, dinanzi al ceto borghese, che era il Terzo Stato. Il dipinto fu mostrato alla Quadriennale di Torino del 1902 e passò sotto silenzio. Nessun museo lo acquistò. Tuttavia il successo venne, prevedibilmente mediante la stampa socialista, anche se continuò a non essere esposto perché ritenuto soggetto pericoloso.
Eppure questa “Scuola di Atene” del proletariato doveva essere composta da persone, tutt’altro che pericolose, che lavoravano per davvero, facevano della lotta per il diritto universale una lotta di classe. Persone reali e luogo reale. Come luogo scelse Piazza Malaspina a Volpedo e come persone, beh… i suoi compaesani. Tutte persone umili, tutte persone appartenenti al nascente Quarto Stato. Iniziamo così da sinistra, la donna è Maria Bidone, sorella minore di Teresa, la moglie di Pellizza; accanto a lei Giovanni Ferrari, fabbro, cognato di Pellizza e marito della donna. Lei morì di tisi nel 1907 e lui suicida nel 1932. Di fianco alla coppia sta il sedicenne, con le braccia larghe e le mani aperte, Luigi Dolcini: faceva il contadino e mostrava le mani callose ma sempre vuote. Venne pagato 3 lire per posare come modello. Accanto a Dolcini a fare da modello è Giuseppe “Pepù” Tedesi, straccivendolo e artigiano. Realizzava ciotole di terracotta che barattava nelle cascine con pelli di coniglio, che rivendeva alla Borsalino, la celebre azienda di cappelli di Alessandria. Prima di passare alle tre figure centrali, gli altri modelli furono Lorenzo Roveretti, l’uomo che dà la mano a un bambino, e che era un ingegnoso contadino che aveva inventato una autobotte con un bidone e una grondaia e che si era conquistato l’appalto per la pulizia delle strade. Dietro di loro Emilia Bruno, la donna più bella del paese. E infine il cestaio di Volpedo, Costantino Gatti.
Veniamo alle tre figure centrali. La donna è nientemeno che la moglie di Pellizza, Teresa Bidone, compagna amatissima che morì dopo aver dato alla luce il terzo figlio, nel 1907. Evento che causò una profonda depressione nell’artista che lo condusse al suicidio nello stesso anno. Il primo uomo da sinistra nel quadro, quello con la giacca sulla spalla, si chiamava Giacomo Bidone e faceva il falegname. Se ne andò in America poi, e se ne persero le tracce. Il protagonista del dipinto, colui che procede con disinvoltura verso l’osservatore, è l’unico ad avere due modelli. Il primo è Giovanni Zarri, detto ‘Gioanon’, altro falegname, dalla statura imponente. L’altro invece è l’unico modello non appartenete al Quarto Stato. Si trattava di uno dei “notabili” del paese. Generalmente, in quell’Italia di fine secolo erano sette i punti di riferimento in un paese di provincia: il parroco, il medico, il maestro o professore, il comandante dei carabinieri, l’avvocato o il notaio e lo speziale, insomma il farmacista e il sindaco /che poteva benissimo essere uno di questi, eccezion fatta per il comandante e il parroco. E il farmacista del paese era un certo Giovanni Gatti. Il Gatti non era un proletario ma era personalissimo amico di Pellizza, socialista e repubblicano come lui e con il quale si intratteneva in lunghe discussioni sul socialismo, sul proletariato e sul ruolo che l’arte avrebbe dovuto assumere. Erano uniti da un comune sentire. Fu lui a visitare, in sostituzione del dottore, il pittore la notte in cui si tolse la vita impiccandosi e fu lui a tenere un discorso funebre ai suoi funerali. Rilasciò l’indomani del suicidio dell’amico (il 14 giugno 1907) una intervista al giornale “L’Opinione Liberale” in cui raccontava la vicenda umana del pittore di Volpedo. Fu anche l’unico a posare senza compenso. Non ne aveva bisogno, erano amici e il Pellizza non navigava nell’oro. Del resto il Gatti e Pellizza non potevano che trovarsi. Gatti era, oltre che un uomo istruito e colto, oltre che un socialista e repubblicano, anche una persona che aveva vissuto esperienze non comuni: aveva infatti abbandonato, per un periodo, la facoltà di farmacia di Pavia e da buon garibaldino quale era (e badate che Garibaldi era una star internazionale) si arruolò nella Armata dei Vosgi, partecipando alla campagna borgognona, in cui Garibaldi sconfisse i prussiani, correndo in aiuto della neonata Terza Repubblica.
Ecco dunque, il volto del protagonista non è un proletario della campagna, ma un amico del pittore, un amico però che, come l’artista, fu un socialista vero nelle parole e nei fatti (la cui vicenda è raccontata dalla pronipote Maria Vittoria Gatti nel libro “L’uomo col cappello”).