Di Magali Prunaj
E’ stata inaugurata di recente, a Milano, una statua dedicata a Margherita Hack: la prima statua raffigurante una donna scienziato su suolo pubblico, ha precisato l’assessore alla cultura del comune di Milano, Tommaso Sacchi.
Intitolata “Sguardo fisico”, rappresenta la celebre astrofisica nell’atto di guardare l’universo attraverso un immaginario telescopio. Tralasciando il giudizio sulla fattura dell’opera che non compete chi scrive, è innegabile che il volto sorridente ritratto sia proprio quello della professoressa Hack.
E proprio guardando quel volto ho ripensato alla prima volta che mi ritrovai a pochi metri da lei, forse anche meno di qualche metro, talmente emozionata che, nella timidezza tutta tipica dell’adolescenza, mi fu impossibile dirle qualcosa di più di “piacere” stringendole la mano.
Era una sera di autunno e la professoressa era stata invitata a tenere una piccola conferenza al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano nel corso del premio Voltolino, organizzato dall’Unione Giornalisti Italiani Scientifici (UGIS).
Era forse il 2004 e in modo molto chiaro e semplice rese comprensibile anche a me, studentessa dell’ultimo anno di liceo linguistico, qualcosa di estremamente ostico come i buchi neri. Poco dopo fu chiamata a consegnare un premio alla carriera a un giornalista scientifico in pensione, che l’aveva intervistata tante di quelle volte da potersi permettere ormai una confidenza quasi da vecchi amici.
Ma ciò che mi colpì maggiormente di Margherita Hack non fu tanto che riconobbe un giornalista col quale non aveva più alcun rapporto professionale da almeno dieci anni o la sua capacità di rendere semplice anche l’argomento più complesso. No, quello che mi colpì fu la sua timidezza. Sembrava quasi fosse imbarazzata da tutte quelle persone riunitesi proprio lì per ascoltare lei e ciò che aveva da dire.
Una timidezza che ritrovai ancora quando, qualche anno dopo, ebbi il grande privilegio di intervistarla per uno dei tanti mensili studenteschi dell’Università Statale di Milano. La chiamai a casa, mi presentai come studentessa che desiderava avviare una carriera giornalistica e che faceva “palestra” in un giornale universitario e che mirava al “colpaccio” presentando alla redazione un’intervista niente di meno che a Margherita Hack.
Nonostante la sua gentilezza, il suo essere disponibile fu, probabilmente, l’intervista più difficile che mai abbia realizzato. Mi resi conto di sapere veramente poco del mondo di quella affascinante donna: di lei e dei suoi studi.
Decisi che da quel momento dovevo essere sempre più informata e preparata.
Riguardo le foto che ho scattato alla statua che la rappresenta, ripenso a quegli occhi azzurri penetranti e dolci e a un suo libro, letto di recente, nel quale racconta che si iscrisse a fisica per caso e che si laureò con una tesi in astrofisica più per ripiego che per passione.
Una passione che poi indubbiamente è arrivata e che ha trasmesso a generazioni e generazioni di studenti e appassionati.
Grazie, dunque, comune di Milano e grazie Tommaso Sacchi per far sì che una tale donna non sia dimenticata nel tempo, ma che la sua figura rimanga a imperitura memoria davanti a un luogo di studio perché generazioni future di giovani studenti continuino a essere ispirati da quella piccola grande donna.