di Francesco Postiglione e Domenico Vito
La guerra in Ucraina ci ha svelato molte fragilità del sistema di sicurezza internazionale.
Molte cose che sono successe hanno portato alla luce zone d’ombra di azione, meccanismi facilmente attaccabili, insidie nella struttura degli stessi organi come il Consiglio di Sicurezza.
Ma tutto questo era evitabile?
Questa esperienza può insegnarci qualcosa?
Riportiamo qui alcune delle tesi già esposte nei nostri VLOG promosse dall’analista di cultura politica Francesco Postiglione, fondatore di Democrazia Consapevole
La regolamentazione dei mercati, la valorizzazione, anche mediante incentivi economici, della cooperazione, l’estensione su scala globale dell’economia del terzo settore, la limitazione della concorrenza sfrenata, sono questioni già individuate come problematiche e conflittuali all’interno dei singoli stati. Ma su scala globale sono possibili se e solo se è possibile un ordinamento giuridico internazionale che difendendo i diritti degli individui in ogni parte del mondo impedisca agli attori economici o politici di fare il bello e cattivo tempo. E questo il salto che bisogna compiere.
La teoria filosofico-politica offre una risposta a questo problema: una situazione allargata di «democrazia ideale», di diffusione della democrazia su un duplice piano: sia sul piano della forma istituzionale dei singoli stati del mondo, sia sul piano della forma istituzionale dell’ordinamento internazionale.
È appena il caso di notare infatti che la penetrazione neo-imperialista delle multinazionali è più forte e meno controllata proprio in presenza di regimi non democratici: in Sud America, come in Myanmar, o nella regione dei grandi laghi africani. L’istituzione di forme di democrazia vera in questi stati certo non basterebbe (ma aiuterebbe moltissimo): c’è bisogno che sul tavolo delle questioni internazionali le decisioni siano prese secondo un modello pienamente democratico. E, paradossalmente, questa autentica chiave di volta dei problemi del sottosviluppo è completamente trascurata da tutte le idee politiche attuali.
E come se a livello internazionale ci fosse solo da accettare lo status quo dello strapotere politico dei paesi del G8, per attenderne la consumazione e l’usura aspettando la rivoluzione, e vi fosse impossibilità di ipotizzare un ordinamento internazionale di tipo diverso, più giusto e più rispondente alle pressanti esigenze delle sempre più grandi masse di popolazione del nostro mondo.
Nemmeno i movimenti no global negli anni ’90 sono giunti alla chiara ed evidente verità che la regolazione internazionale dell’economia passa per una struttura politica internazionale di tipo democratico, a cui demandare i pieni poteri decisionali e di controllo. La loro ottica è stata piuttosto quella della lotta e dell’opposizione al capitalismo in quanto tale, degni eredi in questo della visione marxista.
Un’alternativa concettuale invece esiste, ed è basata sulla riproduzione del modello democratico su scala internazionale: un’unica assemblea di stati (rappresentati da ambasciatori eletti in ciascuno stato democraticamente) in grado di decidere a maggioranza, senza veti e vincoli di potere. A questa assemblea, es. l’assemblea ONU (e non il Consiglio di Sicurezza) va demandato il potere giuridico e politico di redimere i contrasti internazionali, di codificare tutta la giurisprudenza internazionale in materia di diritti sociali, economici, politici e civili, e di controllare mediante commissioni o altri istituti che il diritto sia rispettato. A un Tribunale Internazionale Permanente, ampliato nella sua giurisdizione rispetto a quello attuale, va demandato invece il compito di sancire la punizione per i violatori della legge. A un esercito internazionale sotto controllo ONU, infine, il compito di applicare la punizione. Il Consiglio di Sicurezza nelle sue forme attuali va cassato, in quanto erede di una situazione storica di fine guerra mondiale oramai fuori dalla attualità, e va sostituito ad esso un esecutivo a rotazione con Stati membri in uguale potere e senza diritto di veto.
È nota la più grossa obiezione a qualunque teoria dell’ordinamento internazionale: che gli stati sono centri di potere autonomi, e che quindi le loro istanze non possono essere demandate a un ordinamento superiore, perché essi non ammettono un potere superiore, trovando il loro potere fondamento ultimo nel patto stretto fra i cittadini.
Di questa obiezione, che trova in Hegel il suo massimo rappresentante, e in Kelsen il suo massimo critico il minimo che si può dire è che essa è stata superata non solo dalla teoria, ma dalla storia stessa: una comunità politica internazionale di fatto esiste almeno dalla nascita dell’ONU (a non voler risalire addietro ai suoi predecessori, Società delle Nazioni, Santa Alleanza, leghe permanenti di stati, città o nazioni) ed è per giunta la più ampia possibile, comprendendo di fatto tutti gli stati esistenti.
Non solo. C’è qualcosa di più di un ordinamento giuridico a definire gli orientamenti internazionalisti della politica attuale e del futuro. C’è la consapevolezza dell’ottica globale degli eventi del mondo, e la consapevolezza della dimensione internazionale di ogni problematica, di ogni controversia, di ogni affare, persino quelli che più direttamente riguardano le ragioni di politica interna.
Il mondo vive oggi una situazione che rappresenta davvero un laboratorio privilegiato per osservare come si generi, a partire da istanze di natura prettamente sociale, il pactum societatis che spinge gli individui ad unirsi sollevandosi dallo stato di natura anarchico. In tutto il mondo, centinaia di milioni di persone protestano per le stesse ragioni, e cioè per rivendicare tre cose essenzialmente: pace, sicurezza e diritti. Ed è proprio per questo che da più parti si solleva con insistenza ormai costante l’istanza internazionalista, generalmente identificata con l’intervento dell’ONU e dei suoi organismi.
Si assiste in pratica alla richiesta, da parte delle popolazioni, di costruzione di un’autorità super partes che sia in grado di garantire e attuare la giustizia e con essa dunque quelle esigenze di pace sicurezza e diritti portate avanti da tutti gli individui, senza distinzioni di razza, nazione, lingua, religione, sesso, genere, preferenze sessuali.
Questa richiesta altro non è che quell’istanza di associazione, quell’esigenza di costituzione del patto che la teoria politica vede all’origine della costituzione dello stato. Solo che adesso non è lo stato il soggetto politico prioritario, l’autorità superiore alla quale i cittadini demandano la propria sicurezza. E ciò è perfettamente comprensibile se consideriamo che la forma-stato non solo ha fallito in passato nell’assolvere a questo compito, ma si presenta oggi del tutto incapace di assolvere alle esigenze della cittadinanza mondiale. I cittadini canadesi o buthanesi o svedesi non vogliono più solo la loro propria sicurezza o i loro propri diritti, ma anche la sicurezza e i diritti per gli altri cittadini del mondo. E poi tutti i cittadini del mondo vogliono la pace. A queste esigenze la forma-stato, proprio per come essa è stata concepita, non può più dare risposta.