La guerra in Ucraina ci ha svelato molte fragilità del sistema di sicurezza internazionale.
Molte cose che sono successe hanno portato alla luce zone d’ombra di azione, meccanismi facilmente attaccabili, insidie nella struttura degli stessi organi come il Consiglio di Sicurezza.
Ma tutto questo era evitabile?
Questa esperienza può insegnarci qualcosa?
Riportiamo qui alcune delle tesi già esposte nei nostri VLOG promosse dall’analista di cultura politica Francesco Postiglione, fondatore di Democrazia Consapevole
Qualunque politica di intervento internazionale deve confrontarsi con il piano globale in cui l’economia si muove, che è oggi un dato di fatto impossibile da contestare e probabilmente anche da contrastare. Non è fatalismo economico quello che sostiene che la dimensione globale dell’economia è ormai un dato irrinunciabile, ma è una chiara visione politica, che dovrebbe invece essere il punto di partenza di una nuova concezione della politica internazionale: l’idea cioè che non esiste, e non dovrebbe esistere, parte del mondo in cui le condizioni economico-sociali degli abitanti siano ininfluenti o irrilevanti per la restante parte della popolazione mondiale.
Fatto sta che non è l’internazionalismo economico il nemico della sovranità popolare (come sostengono i sovranisti populisti di oggi), ma piuttosto un certo tipo di modello internazionalistico, ed è quello che va combattuto e riformato se si vuole l’attuazione della giustizia sociale su scala non solo nazionale ma globale.
In una intervista degli anni ‘90, Ralf Dahrendorf (Dopo la Democrazia, 1993) ha sostenuto che proprio questo modello internazionalistico che popolarmente si definisce «globalizzazione» sta erodendo sempre più gli spazi tradizionali della democrazia dello Stato-nazione. Il problema principale riscontrato in questo modello secondo le tesi dell’eminente sociologo è che le decisioni vengono sempre più prese al di fuori dei luoghi tradizionali della politica (i parlamenti degli stati democratici) da strutture e organi che non hanno un’adeguata legittimazione democratica perché non sono organismi eletti dal popolo, come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Nato, il Consiglio Europeo, ecc.
Quel che è peggio, come appare chiaramente nel caso delle decisioni prese dai paesi appartenenti al G8, è che tali decisioni non coinvolgono solo i paesi occidentali, di cui questi organismi sono l’emanazione (anche se si tratta di un’emanazione non democratica, in quanto non sempre i membri di questi organismi non sono eletti dalla popolazione), ma generalmente tutto il mondo, o comunque aree rilevanti del pianeta. Si tratta di una chiara sottrazione di prerogative decisionali dal popolo verso organismi di non chiara matrice democratica. «Decisioni di vitale importanza non sono più assunte a Montecitorio o a Westminster, e neanche in Capitol Hill, ma altrove. […]
La decisione di bombardare Belgrado è stata presa dalla Nato. Se la Russia possa avere nuovi prestiti internazionali, è affare del Fondo monetario. E non sempre lo spazio cui queste decisioni si applicano è chiaramente definito. […] Ma le cose diventano persino più complicate quando le decisioni vengono prese da corporations internazionali, perché in quei casi non è semplice nemmeno individuare dove si è deciso. […] Si tratta di scelte che hanno effetti su migliaia di vite umane, con conseguenze molto più ampie di quanto non avvenga per molte delle scelte operate dai livelli nazionali. Non è davvero facile immaginare come si possa influire su queste decisioni; e certamente si può dire che esse sono estranee al processo democratico».
Il problema posto da Dahrendorf è chiarissimo nelle sue linee generali: esistono organismi istituzionali sovra-nazionali a cui le democrazie nazionali della tradizione delegano sempre di più decisioni importanti, e questi organismi non sono strutturati in senso democratico, anzi, per meglio dire, non sono strutturati in senso rappresentativo. Grave è il caso delle decisioni prese dai dirigenti delle multinazionali, che hanno un’influenza pubblica, perché riguardano migliaia di persone, ma non hanno il riscontro e la trasparenza pubblica che tale influenza meriterebbe. E sono decisioni di privati che decidono a titolo personale (non come titolari di una carica pubblica) su questioni che riguardano vaste zone abitate del pianeta.
Ancor più grave è la considerazione che queste decisioni prese in forma occulta e comunque non democratica non riguardano il solo campo economico-sociale (e sarebbe già abbastanza) ma a volte anche le questioni politico-militari.
Nel mondo è palesemente in atto un processo di internazionalizzazione, o meglio di riduzione dei ruoli della politica nazionale, che non ha precedenti nella storia. E’ necessario dunque convogliare questo processo verso una direzione che permetta di riprodurre, nell’ambito delle sedi decisionali, la struttura della democrazia internazionale (secondo il modello ideale che abbiamo delineato nel precedente articolo) almeno nei suoi elementi portanti, che sono lo stato di diritto (cioè l’insieme di regole e vincoli che impediscono a qualsiasi potere di essere assoluto) e la rappresentanza della voce popolare.
Il motivo principale per cui il capitalismo mondiale attualmente può definirsi selvaggio e discriminatorio è proprio dovuto alla mancanza di quell’ordinamento internazionale che rifletta su scala mondiale la struttura rappresentativa dell’ordinamento statale così come da noi delineata.
Il meccanismo di istituzionalizzazione degli spazi decisionali della politica internazionale da noi presentato a conclusione del ragionamento sul futuro del diritto internazionale, con la partecipazione esclusiva di rappresentanti nazionali eletti dai popoli a tutte le sedi di consesso internazionale, e con uguali poteri di voto concessi a ciascun rappresentante, ha il vantaggio di risolvere teoreticamente questa difficoltà.
Resta da chiedersi se l’attuazione di quel modello è fattibile e opportuna nella dimensione storica attuale che la comunità internazionale sta vivendo.
Il mondo vive una fase di regolamentazione delle controversie politiche internazionali caratterizzata da una contraddizione profonda. Da una parte, sta un ordinamento giuridico internazionale mai così sviluppato, denso di normative e trattati che potrebbero costituire, già nella loro forma attuale, un «codice civile internazionale» sufficiente al superamento dei contrasti bilaterali. Dall’altra parte, le politiche effettive degli stati nelle loro relazioni con altri stati sono condotte ancora nella vecchia ottica dell’anarchia e delle lotte di potere. Di questa anarchia approfittano gli attori economici transnazionali per imporre le loro pretese in assenza di regole, specie nei territori del terzo mondo che per mancanza di tutela internazionale rappresentano una sorta di «terra di nessuno».
Bobbio ha indicato l’evoluzione dei rapporti di forza tra gli stati nella storia recente attraverso tre fasi: la fase dell’anarchia totale (prima e seconda guerra mondiale), la fase della convergenza verso i due poli (la guerra fredda), la fase del predominio della forza da parte dell’unico sorvegliante (la fase attuale), e ha auspicato la necessità dell’evoluzione verso la quarta e definitiva fase, la fase dell’ordinamento plurilaterale delle controversie da parte dei meccanismi internazionali.
Concordiamo in pieno con la necessità di questa ulteriore evoluzione: non v’è alcun dubbio che la storia indichi con nettezza i passi avanti svolti e in corso di svolgimento verso questa direzione (dalla Dichiarazione Universale ai patti e alle convenzioni che compongono oggi il diritto internazionale, fino all’istituzione del Tribunale Internazionale Permanente), ma le forze riformatrici e rivoluzionarie del mondo non possono sedersi ed aspettare la fatalità della storia. Piuttosto devono spingere verso questa direzione, verso il compimento dell’ultimo e definitivo passo. La meta finale è un’Assemblea dell’ONU restituita ai suoi pieni poteri, senza Consigli di Sicurezza con veti o cariche illimitate, o consorzi fra stati che indeboliscano e inficino il funzionamento globale del meccanismo, da noi già delineato nella sezione precedente.
La politica internazionale è il campo dove più c’è da lavorare per modificare l’esistente, eppure è proprio qui che la teoria politica attuale sembra più che mai spogliata di idee. Politicamente, il ritardo delle sinistre occidentali verso questi argomenti ha prodotto come reazione negli anni ’90 il gigantesco movimento no global, fiorito totalmente al di fuori dei luoghi istituzionali della politica. Questo sarebbe già di per sé il segno di una grossa sconfitta, se non fosse che questo movimento è stato per giunta alternativo e polemico non solo verso l’ordine mondiale costituito, ma anche verso le spinte «riformatrici» della sinistra ufficiale, colpevoli di non spendere parole o di non dedicare abbastanza energie alla soluzione dei problemi globali dell’economia. Non v’è dubbio che una forza di governo riformista, un riformismo ufficiale, avrebbe dovuto non solo dialogare con i movimenti no global, e la loro eredità tuttora vivente, ma addirittura farsene portavoce nelle sue istanze fondamentali. Che non sono istanze di rifiuto della dimensione globale, ma istanze di regolamentazione di quella dimensione, e soprattutto di partecipazione ai processi decisionali.
Queste istanze (che se negli anni ‘90 venivano definite no global è ora corretto definire New Global) che si manifestano ripetutamente nelle grandi manifestazioni di piazza, nei forum sociali mondiali organizzati in ogni dove, nelle documentazioni e nei dibattiti via internet e che coinvolgono in una forma inedita gruppi sociali e membri della società civilemeritano, per il fatto stesso di essere istanze di partecipazione, una traduzione non più procastinabile in adeguati meccanismi di coinvolgimento delle masse nei processi globali.