Quando in questo periodo si parla di politica estera e geopolitica, a livello mass mediatico ci si concentra, vuoi anche comprensibilmente, sulla guerra in corso in Ucraina. Ma dietro questo conflitto si cela un intero spazio in trasformazione, quello post-sovietico che, anche per la sua natura etnicamente composita, merita qualche attenzione. Così abbiamo intervistato Emanuel Pietrobon, analista geopolitico per l’Osservatorio Globalizzazione, Insideover, il Giornale e Opinio Juris; e autore di diversi volumi quali “La visione di Orbán. Come Fidesz ha cambiato l’Ungheria” (con A. Muratore), “L’arte della guerra segreta” e “Zelensky. La storia dell’uomo che ha cambiato per sempre il modo di fare la guerra”
Il conflitto in Ucraina si può definire la “spannung” di un racconto trentennale dello spazio postsovietico. Come si è evoluto nell’arco di un trentennio quello spazio e come si lega al conflitto attuale?
Ritengo questa un’ottima domanda perché arriva direttamente al nocciolo della questione: questa guerra è scoppiata anche e soprattutto a causa delle pessime condizioni di salute dello spazio postsovietico. O meglio: pessime dal punto di vista della Russia. Abbiamo i Baltici che sono entrati a far parte dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica. La Bielorussia che è un satellite con la voglia di ruotare attorno ad altri pianeti, che vive della linfa vitale di una persona, Aleksandr Lukashenko, e la cui situazione domestica non permette di fare pronostici – potrebbe esplodere a causa di una miccia per via di una società chiaramente e largamente protesa verso ponente, o potrebbe essere trasformata in uno stato-caserma telecomandato dal Cremlino in funzione anti-Nato (come già sta avvenendo). Poi ci sono il Caucaso meridionale spartito con altri concorrenti, in primis la Turchia, la Moldavia tenuta nella sfera di influenza russa soltanto dalla Transnistria e l’Asia centrale nel mezzo di una riedizione in salsa contemporanea del Grande Gioco.
Parlare della situazione in cui versa l’area postsovietica è fondamentale: è da questa percezione di spazio vitale in arretramento, che solo percezione non è – perché è realtà fattuale –, che nasce la guerra in Ucraina. La Russia non poteva e non può permettersi ulteriori azioni vandaliche nel proprio cortile di casa, che se ridimensionato ulteriormente potrebbe condurre i ladri direttamente in soggiorno. La domanda è: per quanto tempo la Russia, crescentemente percepita come una potenza neo-imperiale e imperialistica dai suoi vicini e parenti, riuscirà a tenere a bada le velleità di “secessionismo geopolitico” dei suoi satelliti? Se già Georgia 2008 esercitò un impatto notevole nell’immaginario collettivo postsovietico, Ucraina 2022 verrà ricordata come l’equivalente contemporaneo di Budapest 1956 dagli ucraini e non solo. Non a caso, lo spazio postsovietico è stato attraversato da dimostrazioni pacifiste e marcatamente antirusse, più che anti-Cremlino, nel corso del conflitto. Persino la Mongolia, che postsovietica non è ma che è postcomunista e ha un record di assoluta fedeltà alla Russia, è stata casa delle prime manifestazioni antirusse della sua storia nel corso della guerra in Ucraina. Cose su cui riflettere.
C’è un protagonista silenzioso ma non troppo: la Turchia. Una Turchia che, anche grazie al Consiglio Turco, va da Adrianopoli all’altopiano dell’Altaij. Che ruolo può giocare ora e in futuro?
La Turchia è un ariete che nei secoli scorsi fu utilizzato dall’Europa in funzione antirussa, pensiamo alla guerra di Crimea, e che oggi sta venendo impiegato dagli Stati Uniti con lo stesso scopo. Delle potenzialità della Russia nello spazio postsovietico ne parlò ampiamente l’influente geopolitico e geostratega Zbigniew Brzezinski nelle sue opere.
Da dove arriva questo potenziale innato? Dall’identità. La Russia si stende su un’area popolata in larga parte da popoli di etnia turca, che, talora, sono anche di fede islamica – è importante enfatizzare il “talora”: esistono tanti popoli turchici di orientamento animista o cristiani – e che si sentono naturalmente attratti dalla Turchia.
La Turchia non opera soltanto nello spazio postsovietico asiatico attraverso il noto Consiglio turco, ma anche nell’ex Iugoslavia – Serbia inclusa –, in Moldavia – dove ha trasformato la Gagauzia in uno stato nello stato a uso e consumo anatolico – e all’interno della Federazione russa, dove ha legami con organizzazioni terroristiche come Hizb al-Tahrir e partiti e movimenti autonomistici e/o secessionistici attivi dal Caucaso settentrionale alla Siberia. Spiegato altrimenti: la Turchia nazionalizza e radicalizza, e anche tanto, ponendo una minaccia non di poco conto alla sicurezza nazionale e all’integrità territoriale della Russia. E non è fantapolitica: nelle pubblicazioni dei principali think tank del Cremlino, come Club Valdai e RIAC, si parla spesso e volentieri delle minacce rappresentate dal panturchismo e dal turanismo di stampo turco.
Guerra mondiale a pezzi e mondo russo. Georgia 2008, conflitto armeno-azero, disordini a Nur Sultan. Sono eventi legati? E in che modo possono influire sulle spinte centrifughe presenti nella federazione?
La guerra in Georgia del 2008 fu un messaggio premonitore, un monito, il preludio della “nuova guerra fredda” tra Russia e Occidente. La seconda guerra del Karabakh la categorizzo nell’ambito delle cosiddette “nuove guerre russo-turche” e per il Cremlino è stata una manna dal cielo: ha riportato alla casa del padre il figliol prodigo, l’Armenia dell’esterofilo Nikol Pashinyan, senza colpo ferire. Se la seconda guerra del Karabakh non fosse scoppiata, i russi avrebbero dovuto inventarla.
Vedo, invece, un filo conduttore fra i tremendi disordini kazaki di inizio anno e la guerra in Ucraina. Questa è la fase delle “periferie al centro”, cioè di satelliti et similia al centro di contese – a causa del venire meno della legge non scritta del rispetto delle linee rosse –, e già nel novembre 2021, osservando alcuni eventi tra Latinoamerica e Pacifico, preconizzavo l’imminente scoppio di tumulti in altre periferie-chiave del globo localizzate negli immediati margini degli Imperi asiatici. E Kazakistan e Ucraina cosa sono, se non periferie prospicienti la Russia?
La Russia, in questo mutato contesto, deve e dovrà fare molta attenzione a quanto accaduto dentro e lungo i propri confini. Perché c’è un malcontento al quale l’Occidente e i suoi alleati, come la Turchia, possono attingere per alimentare insurrezioni e portare avanti operazioni di disturbo. E questo malcontento, che è genuino e ha radici antiche – basti pensare al fatto che il separatismo nordcaucasico ha più di due secoli –, è destinato ad aumentare nel dopo-Ucraina sia per ragioni fisiologiche – la percezione della Russia come potenza imperialista – sia per ragioni artificiali – il denaro proveniente dall’esterno.
Molti analisti non avrebbero scommesso sulla invasione dell’Ucraina da parte di Putin, perché? Vittoria tattica ma: scelta obbligata o errore strategico?
Gli analisti che ritenevano un’invasione impossibile o improbabile sono, paradossalmente, i migliori conoscitori della Russia. I più bravi analisti d’Italia e del resto del mondo, incluso quel mostro sacro che è il futurologo per antonomasia George Friedman, erano convinti che ad una guerra di queste proporzioni non si sarebbe arrivati. Ed esiste un motivo se, fino all’ultimo, hanno veicolato con forza e fermezza quest’idea: invadere era un suicidio sotto ogni punto di vista, con un rapporto costi-benefici tutto a danno del Cremlino. Putin ha sostanzialmente negato all’Ucraina il diritto di esistere, perché definita artificiale e molte altre cose in mondovisione: ha de facto creato gli ucraini. Voleva riportare l’Alleanza Atlantica ai confini del pre-allargamento all’ex patto di Varsavia: potrebbe vederla davanti alle coste di San Pietroburgo. Voleva detronizzare Volodymyr Zelenskij: ne ha fatto un eroe agli occhi degli ucraini e, a quanto pare, anche dell’apparato securitario, visto che il tanto voluto colpo di stato militare non ha avuto luogo. Voleva rinegoziare l’architettura della sicurezza euroatlantica: otterrà una pressione senza precedenti lungo i confini occidentali della Russia, sullo sfondo della “morte” del partito europeo della distensione e dell’autonomia strategica. Senza parlare del congelamento a tempo indefinito del Nord Stream 2, un “tubo” costato circa dieci miliardi di euro, del regime sanzionatorio pensato per inibire la crescita e lo sviluppo nel lungo termine e, molti sembra che non l’abbiano ancora capito, per disaccoppiare i mercati economico, finanziario ed energetico di UE e Russia, legando la prima agli Stati Uniti ed espellendo la seconda in Asia.
Mi si dirà che Putin ha evitato l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica. Ma questa è propaganda russa: l’Ucraina non sarebbe mai entrata nell’alleanza militare, un po’ per la presenza di un conflitto a intensità variabile al proprio interno e un po’ perché il partito dell’allargamento era ultra-minoritario e privo di appoggi fondamentali, come quelli di Germania, Francia, Italia, Ungheria e Turchia. Cose che Putin sapeva e che sa chiunque bazzichi in quegli ambienti. Putin, in pratica, non ha impedito proprio nulla. Se anche l’Ucraina fosse entrata, comunque, non sarebbe avvenuto oggi, ma fra dieci-vent’anni, e con elevata probabilità aderendo ad un “formato baltico”: una presenza più simbolica che altro, senza armi letali e avanzate sul territorio.
Tornando al discorso, quest’invasione avrà tanti costi per Putin e la Russia. Il costo di relazioni con l’UE che ne risentiranno per anni, forse anche per un decennio. Il costo della progressiva estromissione dal suo primo mercato di riferimento, cioè l’UE. Il costo di aver trasformato definitivamente l’Ucraina in quell’”anti-Russia” da lui temuta. E il costo, che si manifesterà più in là nel tempo, di aver gettato – da solo – i semi della discordia sia in patria sia nel resto dello spazio postsovietico.
Ciò detto, quelli che ho elencato sono costi che vengono pagati ora e si esprimeranno nel prossimo futuro, ma nel medio e lungo termine è tutto da vedere. Il secondo tempo deve ancora cominciare e, come abbiamo ben visto, gran parte del resto del mondo appoggia quando silenziosamente e quando apertamente la Russia. Perché? Dedollarizzazione e transizione multipolare. Se la Russia riuscisse a capitalizzare il malcontento emerso, costituendo un blocco che catalizzi l’arrivo del multipolarismo, o di un ordine policentrico, allora potremmo affermare che, dal punto di vista di Putin, “ne è valsa la pena”.
Lotta tra unipolarismo nordamericano e tendenze multipolari: si può dire che è questa la posta in gioco? E qualora la Russia dovesse uscirne notevolmente indebolita, l’eredità dello spazio post-sovietico può essere spartita tra mondo Tartaro e Cina?
In parte ho già risposto a questa domanda. Questa è chiaramente una guerra da inquadrare all’interno di un contesto più ampio, che è quello della transizione multipolare, e sta vedendo una molteplicità di giocatori svolgere qualche ruolo: dal Brasile contrario alle sanzioni alla Cina che fa campagna acquisti nel mezzo della guerra e, nel frattanto, arma anche la Serbia.
Se la Russia dovesse perdere anche il secondo tempo, che è quello più importante, allora potremmo assistere alla spartizione dello spazio postsovietico tra più attori, ognuno dei quali dotato di una certa influenza su determinate aree. Potremmo avere la Turchia egemone nella sfera culturale, dall’Azerbaigian agli –stan. Potremmo avere le petromonarchie imperanti nella sfera energetica. La Cina tra infrastrutture e commercio, ma non solo. A fare da sfondo, India, Pakistan, UE e Stati Uniti. Il Grande Gioco senza la Russia. Ma parliamo di un futuro troppo inoltrato per poter fare previsioni accurate. Tante le variabili da considerare. Molti, chissà quanti, gli eventi che ci separano da questo futuro. Una sola cosa è certa: la guerra ucraina è il primo tempo di qualcosa di molto più grande ed epocale, la transizione multipolare, e tutto si giocherà nel prossimo tempo.