di Vlastistav Malashevskyy
Alok Sharma si posizione nella schiera di coloro che ritengono un successo la più recente COP26,
tra interviste e addirittura articoli a sua firma1. D’altra parte Extinction Rebellion (XR) e altri attivisti
gridano al fallimento, con manifestazioni, post e non di rado disobbedienza civile, promettendo
perfino milioni di ribelli nelle strade di Aprile 2022. Chi ha ragione?
Torniamo indietro al 1992, anno in cui è stata sottoscritta la Convenzione 2, ovvero fatta nascere
l’UNFCCC. Sì, perché ogni COP finora svolta è proprio per definizione un incontro dei paesi,
ufficialmente Parti, sottoscrittori della Convenzione. Comprendere il contesto in cui le Parti si
incontrano può permettere di valutare in modo più completo i risultati ottenuti di volta in volta alle
COP.
Innanzitutto, il nome: Convenzione Quadro delle Nazioni Unite per il Cambiamento Climatico
(United Nations Framework Convention for Climate Change, da cui UNFCCC). È tautologico il
riferimento al clima, non ad esempio all’ambiente in generale o alla biodiversità (ci sono altre
convenzioni anche su questi). Si ha quindi la prima evidente limitazione, essa riguarda la
profondità e l’estensione della discussione.
In merito all’estensione, l’argomento affrontato sono i cambiamenti climatici, e eventuali altre
tematiche ambientali vengono toccate nei limiti della loro interazione con il clima, che senza
dubbio è di portata non indifferente, ma in ogni caso non le si discute per se.
Sulla profondità della discussione, l’osservazione è, a mio avviso, tanto importante quanto
delicata e di facile fraintendimento. È evidente che per risolvere, o meglio, affrontare, il problema,
si debba necessariamente trattare delle sue cause. Non è altrettanto evidente quanto a fondo si
sia disposti ad andare per ricercare tali cause: rimanere in superficie e arginare la sintomatologia
dei cambiamenti climatici o fare uno sforzo e andare a fondo, con il rischio che le soluzioni ci
facciano mettere in discussione alcuni aspetti delle nostre società? Dal solo nome della
Convenzione, è difficile, anzi impossibile, dedurre quanto le Parti siano disposte a spingersi in là,
anche se l’estensione con cui il problema viene affrontato ci dà un primo suggerimento, e, oserei
dire, campanello d’allarme. Per chiarire questo aspetto serve inoltrarsi nel testo della
Convenzione.
Non analizzerò ogni punto e articolo della Convenzione, poiché sarebbe ridondante e dispersivo
ai fini delle osservazioni finali, bensì mi limiterò alle premesse e ai primi tre articoli, i quali
riguardano le definizioni (articolo 1), l’obiettivo (articolo 2) e i principi (articolo 3).
In primis, dalle definizioni evinciamo quanto già detto in merito al nome della Convenzione, ovvero
l’estensione del tema trattato: si fa riferimento quasi esclusivamente a definizioni puramente
climatiche (“climate change”, “climate system”, “emissions”, “greenhouse gasses” etc).
Passando all’articolo 2, riporto di seguito il suo testo:
Article 2 – OBJECTIVE: The ultimate objective of this Convention and any related legal instruments that the Conference of the Parties may adopt is to achieve, in accordance with the relevant provisions of the Convention, stabilization of greenhouse gas concentrations in the atmosphere at a level that would
prevent dangerous anthropogenic interference with the climate system. Such a level should be achieved within a time frame sufficient to allow ecosystems to adapt naturally to climate change, to ensure that food
production is not threatened and to enable economic development to proceed in a sustainable manner.
È interessante osservare la chiusura di questo articolo: “permettere allo sviluppo economico di
procedere in modo sostenibile”. Ma anche nelle premesse:
- Recalling also that States have, […] the sovereign right to exploit their
own resources pursuant to their own environmental and developmental
policies, and the responsibility to ensure that activities within their
jurisdiction or control do not cause damage to the environment of other
States or of areas beyond the limits of national jurisdiction, - Recognizing that steps required to understand and address climate change
will be environmentally, socially and economically most effective if they
are based on relevant scientific, technical and economic considerations and
continually re-evaluated in the light of new findings in these areas, - Affirming that responses to climate change should be coordinated with social
and economic development in an integrated manner with a view to avoiding
adverse impacts on the latter, taking into full account the legitimate
priority needs of developing countries for the achievement of sustained
economic growth and the eradication of poverty.
Più volte si fa evidentemente riferimento a uno sviluppo economico, al diritto alla crescita
economica. Ma anche nell’articolo 3, uno dei cinque principi fa riferimento esclusivamente a
questo:
The Parties have a right to, and should, promote sustainable development. Policies and measures to protect the climate system against human-induced change should be appropriate for the specific conditions of each Party and should be integrated with national development programmes, taking into account that economic development is essential for adopting measures to address climate change.
Sembra scontato che l’affrontare i cambiamenti climatici implica anche azioni e piani a livello economico, e che l’economia d’altro canto possa essere negativamente impattata da questi, come ogni aspetto delle nostre società, e quindi il riferimento ad aspetti economici è più che legittimo. Tuttavia è forse dato anche per scontato nella Convenzione quale economia e quale tipo di società si prospetti e si dia per necessaria, e lo si evince dai numerosi riferimenti a “sviluppo”, “crescita”, “sfruttamento”.
Non è qualcosa di così inaspettato e paradossale se ci si riflette: il pensiero delle Parti che si incontrarono nel ’92, quando c’era anche poca consapevolezza sulla portata di questi cambiamenti e sulle loro implicazioni, era verosimilmente di limitare i danni del cambiamento climatico, garantendo la stabilità e conservazione dello status quo nei loro paesi. Anche oggi, il potere negoziale è in mano a paesi di stampo simile, ovvero capitalista, seppur di sfumature diverse tra di loro, e quindi con una certa affinità tra di loro in merito ai principi base da porre.
Ma c’è veramente qualcosa di necessario nel ritenere alcuni di questi principi base delle nostre società come condizione indiscutibili, fondamentali? La risposta è evidentemente no: ce li siamo dati come società, ma non c’è nulla che ci impedisca di metterli quanto meno in discussione.
Ecco dunque che il mettere a fondamento della Convenzione, non solo necessità fisiche dell’ambiente che ci circonda, ma anche convinzione ideologiche di stampo socio-economico, porta di per sé a delle limitazione. E la limitazione principale è che semplicemente questi principi non vengono e non verranno messi in discussione.
Chiariamoci, che qualche contorno ideologico venga dato è, non tanto ovvio quanto umano. Il senso qui non è entrare in merito del contenuto di questi fondamenti, ma osservare che essi sono, come detto sopra, un contorno limitante.
Perché è limitante questo contorno ideologico? Poiché si negozia con una libertà limitata di risultati possibili, dovuti alla definizione dell’ambiente in cui si negozia; e questo a sua volta implica che non è detto che alcun tipo di accordo, per quanto ambizioso, possa portare a una effettiva soluzione.
Forse un disegno potrebbe rendere meglio l’idea, non vuole essere una rappresentazione
completa di quanto detto, ma una visualizzazione qualitativa:

Parafrasando quanto detto sopra: le Parti dell’UNFCCC tramite i negoziati delle COP sono alla
ricerca di quel piccolo sottoinsieme intersezione al centro. Ma non è detto che esso esista!
È dunque in questo contesto che va letto il risultato di ciascuna COP, e quindi anche di quella di
Glasgow.
Secondo gli standard di molti attivisti ogni COP sarà un fallimento, ma non è possibile che accada
diversamente. Questo poiché non si ritiene che una società realmente sostenibile sia compatibile
con i principi alla base dell’attuale. Dunque si chiedono cambiamenti radicali, intesi come “alla
radice”, della società, e subito.
Invece le COP sono ambientate in un quadro che tende alla conservazione dell’attuale sistema, a
cui applicare delle modifiche che gli permettano la sopravvivenza ai cambiamenti climatici. In
quest’ottica, secondo Alok Sharma, nonché della classe dirigente della stragrande maggioranza
dei paesi, questa COP26 è stata un successo, o quanto meno non un fallimento: mantiene sul
tavolo negoziale la possibilità, non necessariamente fisica ma sicuramente politica, della
sopravvivenza della società attuale.
È del tutto diversa la prospettiva, e dunque il giudizio.
Personalmente ritengo che sia le COP, nonostante i loro limiti per definizione, sia qualunque altro
processo che porti al cambiamento, siano necessari. L’importanza di processi alternativi, locali o
globali, tramite governi e amministrazioni o cittadini, è evidente: va a individuare tutta quella fascia
di possibili soluzioni nemmeno ricercate dal processo dell’UNFCCC.
Viceversa il valore delle COP è che ricercano una soluzione all’interno di quella che è la società
hic et nunc, andando a intercettare la sensibilità di una fetta molto significativa della popolazione
globale. Attenzione: non è detto che questa sensibilità non cambi – e mi auguro che cambi, ma
non si può certo non riconoscere il gran pregio, in un momento di carenza di tempo, di tentare di
affrontare la crisi senza dover cambiare anche le convinzioni profonde dei molti.
Aggiungo, infine, che il ruolo di chi è in disaccordo con il processo della COP, e che solitamente vi
può prendere parte come osservatore o come manifestante esterno, è fondamentale. Tale ruolo è
ciò che permette pian piano – forse ahimè un po’ troppo, di allentare e spostare verso la direzione
che ritiene opportuna quella linea sopra disegnata riguardante le soluzioni in linea con i principi
attuali. Impuntarsi sulle proprie posizioni e chiudersi all’altro ha portato rare volte a risultati, e in
questo momento storico non possiamo certo permetterci di brancolare nel buio dello scontro:
l’apertura al dialogo e al confronto risultano fondamentali per allargare la nostra resilienza come
specie e l’orizzonte delle soluzioni davanti a noi.
In conclusione, parlare di successo o fallimento della COP26 è del tutto relativo. Quello che
occorre è la partecipazione della società tutta alla ricerca della strada da intraprendere e questo
può e deve accadere attraverso tutte le forme di collaborazione e dialogo a noi disponibili, a
qualunque livello ed estensione.
Note:
1 https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/nov/23/cop26-limit-in-reach-uk-presidency-glasgow-climate
2 https://unfccc.int/resource/docs/convkp/conveng.pdf