di Vladistad Malashevskyy  e Domenico Vito

Uno dei risultati di questa COP26 è stata l’approvazione di un testo per l’articolo 6 dell’accordo di Parigi.

Questo articolo è considerato il braccio finanziario dell’accordo di Parigi, ed è stato ampiamente messo in discussione fin dall’inizio. Non sono pochi coloro che considerano addirittura che non dovrebbe proprio esistere, ma in questo momento, a testo approvato, dopo ben sei anni dalla firma di Parigi, vogliamo focalizzarci sui contenuti, senza mai scordare l’ampio dibattito sulla sua stessa esistenza. 

Partiamo con il dire che l’articolo 6 è un po’ il cuore dell’Accordo di Parigi, che ricordiamo nasce per “correggere” lo storture del Protocollo di Kyoto[1] che a fronte dell’obiettivo di ridurre del 2.5% annuo, ha determinato un aumento del 50% delle emissioni nel primo periodo di applicazione.

Esso nasce con l’intenzione di far cooperare a livello internazionale i paesi e i privati, in modo strutturato e tale da favorire e potenziare l’azione contro i cambiamenti climatici. 

Sin dalla COP24,  tre sono i paragrafi operativi su cui si è concentrata la discussione negoziale di questi anni, ovvero il 6.2 che definisce gli approcci cooperativi, ossia come gli stati possono “scambiarsi” i contributi emissivi in termini di ITMO (Internationally Transferred Mitigation Outcomes) , il 6.4 che ridisegna il Clean Development Mechanism (CDM) e i Certified Emission Reduction Credits (CERs) ossia i cosiddetti “crediti di carbonio” e tutte le modalità con cui attraverso progetti in paesi in via di sviluppo uno stato può contribuire ai propri obiettivi di riduzione attraverso un meccanismo centralizzato (il Supervisory Board) coordinato direttamente dall’UNFCCC, e il 6.8 che definisce quelli che sono detti approcci “non di mercato” ossia tutte quelle modalità per contribuire alla mitigazione al di fuori del mercato del carbonio come ad esempio tramite le nature based solutions, ossia le soluzioni ecosistemiche , la riforestazione e progetti di comunità

Quali sono le principali preoccupazioni generate dall’articolo? 

Premettiamo che, in particolare in merito a quanto trattato da 6.2 e 6.4, qualcosa di simile si era già tentato con il protocollo di Kyoto: la creazione di un sistema di mercato che permettesse ai paesi di scambiarsi unità di carbonio in seguito alla certificazione della messa in campo di progetti di riduzione delle emissioni. 

Ahinoi, i progetti approvati sotto questo protocollo, non solo spesso non hanno visto alcuna vera riduzione delle emissioni, ma sono stati spesso realizzati con violazione dei diritti dell’uomo, in particolare dei popoli indigeni. 

Da qui la prima preoccupazione della società civile, e forse la più semplice da comprendere: la violazione dei diritti umani. 

Sembra scontato richiederne il rispetto, ma, testimone la storia, non è così. Ecco dunque che nelle varie versioni negoziali degli articoli il rispetto dei diritti umani compare, a volte nelle parti operative, altre nei preamboli, per poi sparire del tutto qualche volta, e ricomparire successivamente. Alla fine nei draft degli ultimi giorni li vediamo sempre citati nei preamboli, dando qualche certezza agli osservatori. 

Ma rimane comunque il dubbio su chi si accerterà della loro osservanza o violazione. Nei testi iniziali l’organo competente di osservarne il rispetto sarebbe stato lo stesso che approva i progetti, che è dunque lungi dall’essere una garanzia. 

Come membri di YOUNGO (Youth NGOs Constituency ufficiale sotto il UNFCCC) e molte altre rappresentanze della società civile per giorni abbiamo fatto pressione affinché fosse incluso nel testo un meccanismo indipendente di reclamo, e nella bozza di sabato mattina ha fatto finalmente comparsa il riferimento a un processo (non meccanismo) indipendente di reclamo. Questa bozza è stata poi approvata ed è il testo attuale.

Una seconda principale preoccupazione è il cosiddetto double counting, ovvero doppio conteggio. Anche qui, sembra ovvio che la riduzione delle emissioni vada conteggiata una sola volta, ma molto semplicemente, se non ci fossero vincoli, accadrebbe che ciascun paese che prende parte alla realizzazione del progetto conterebbe la riduzione a suo favore, risultando così in un conteggio multiplo.

Il testo finale per fortuna evidenzia in modo molto chiaro che nel caso di un primo trasferimento (il momento in cui l’unità viene creata attraverso la realizzazione di un progetto) va effettuato un aggiustamento corrispondente, ovvero il conteggio delle unità da parte dei paesi va corretto in modo che vengano utilizzate una sola volta. 

Il testo risulta tuttavia poco chiaro sul conteggio di unità non di primo trasferimento (scambiate di paese in paese più volte), lasciando la porta aperta a loopholes che potrebbero compromettere l’integrità dell’Accordo di Parigi stesso. 

Uno dei più grandi è che il framework di conteggio dei crediti di carbonio, validi per essere integrati negli NDC, si basa su finestre temporali di un anno, mentre gli NDCs hanno anche valenza pluriennale essendo piani strategici. Quindi come integrare questi contributi alla mitigazione?

Ci sono poi molti altri punti poco chiari o ambiziosi nell’accordo, dall’utilizzo delle unità create sotto il Protocollo di Kyoto (notoriamente di nessuna integrità ambientale), alla trasparenza del mercato dei crediti, e altri.

Manca in alcuni punti una consistenza ed una coerenza tra le unità di misura,con altre risoluzioni approvate, come nel meccanismo di flessibilità nelle quali sono ammessi indicatori di valutazione in ettari di superficie forestata [2]

Ma similmente ci sono state richieste da parte della società civile che sono infine state accolte nell’accordo. Oltre al punto sui diritti umani sopra citato, è stata ad esempio rimossa la possibilità di ricevere crediti tramite l’approvazione di leggi che favorirebbero la riduzione delle emissioni. 

In conclusione, considerando il  vuoto abissale lasciato dalla COP25 si può dire che l’accordo finale raggiunto sull’articolo 6, anche scorrendo le versioni precedenti susseguitesi durante i negoziati sul tavolo, poteva essere molto peggiore.

Il percorso di questo articolo ci evidenzia che il livello di ambizione portato dalle Parti a Glasgow è stato lungi dall’essere anche solo minimamente sufficiente per affrontare questa crisi, e non rispecchia le parole dei numerosi discorsi fatti sulla necessità di agire urgentemente. 

Ai fatti, l’accordo sottoscritto ne è  la prova: ancora troppa titubanza si evince dal testo e dalle negoziazioni finali.

D’altra parte però, c’è una società civile molto più conscia e presente, che dalle strade sin alle costituenti ha chiesto e chiede azioni molto più forti, e che ha lavorato senza sosta per alzare il livello di ogni singola frase dell’accordo, talvolta riuscendoci. 

[1]  https://www.insic.it/tutela-ambientale/inquinamento/il-protocollo-di-kyoto-laccordo-globale-sui-cambiamenti-climatici/ 

[2] https://blog.oeko.de/glasgow-delivered-rules-for-international-carbon-markets-how-good-or-bad-are-they-cop26/ 

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