Di Magali Prunaj
Uno dei cartoni animati che preferivo da bambina, tratto da un manga che anni dopo ho recuperato e letto, parlava di una giovanissima giapponese, nei primi anni del novecento, alla ricerca della sua indipendenza e autodeterminazione come persona e come donna.
Siamo in Giappone, sta per scoppiare un conflitto contro la Russia che cambierà radicalmente la vita dei protagonisti dell’ “anime” esattamente come cambiò profondamente la vita dei giapponesi dell’epoca, e sostituire il Kimono, il tradizionale abito giapponese, con dei pantaloni molto ampi è già una piccola battaglia. Anne, la protagonista della storia, decide di indossare questo tipo di abito, che rende i movimenti più liberi e comodi anche se verrà sempre guardata con diffidenza e la renderà oggetto di pesanti critiche da parte di una società ancora strettamente legata all’educazione ottocentesca. Insomma, anche in Giappone, come in Europa, dobbiamo aspettare lo scoppio della prima guerra mondiale perché si compia una vera e propria rivoluzione anche in quella che potremmo definire agilità dei movimenti.
Anne sceglie questo tipo di abbigliamento non solo ed esclusivamente per dare scandalo, ma perché più comodo per andare in bicicletta: un mezzo di trasporto veloce, pratico e che, secondo molte donne che si spesero in tutto il mondo per l’emancipazione femminile, fu uno strumento fondamentale per aiutare le donne a essere autonome.
La bicicletta così come la conosciamo oggi, due ruote una davanti e una dietro di eguale misura, è stata effettivamente di grande aiuto nella lotta per l’emancipazione femminile, ma non solo. Economica, così che chiunque poteva possederne una (non a caso in epoca più moderna è stata il simbolo della classe operaia), facile da condurre, rendeva più facile qualsiasi tipo di spostamento sostituendosi all’andare a piedi, anche per percorrere lunghe distanze.
Il suo utilizzo da parte delle donne non era visto in maniera positiva, non si poteva cavalcare all’amazzone e quindi una donna “a cavalcioni” di una bicicletta era sicuramente giudicata male, tanto che molti medici arrivarono ad affermare che il suo utilizzo fosse poco salutare.
Nel 2021 il mezzo è stato ormai sdoganato tanto che chiunque di noi, o quasi, ne possiede almeno una. Non dobbiamo, comunque, stupirci più di un tanto se se ne è parlato anche alla Cop26 nell’ambito di alcuni convegni dedicati alle disparità di genere e a una mobilità più sostenibile.
Partendo dal dato che ancora oggi il grosso dei compiti inerenti la famiglia e la gestione della casa gravano in gran parte sulle donne, come accompagnare a scuola e andare a riprendere i figli, portarli ad attività extrascolastiche, andare a fare la spesa etc, avere la possibilità di spostarsi velocemente e in autonomia diventa, per le donne, una necessità assolutamente primaria. E per noi tutti è assolutamente necessario che gli spostamenti siano più “puliti”. Non potendo svolgere tutti questi compiti solo ed esclusivamente a piedi, è abbastanza intuitivo che l’utilizzo di un mezzo di trasporto, sia esso pubblico che privato, diventi fondamentale. E nel caso delle donne si è notato che è più frequente l’utilizzo di mezzi privati altamente inquinanti.
Se il trasporto dei figli può essere fatto facilmente con autobus e tram cittadini, lasciando ai comuni il compito di renderli più sostenibili, la spesa alimentare di almeno una settimana per un’intera famiglia non può essere trasportata appesa al manubrio di una bicicletta o trascinata su un tram.
Gli esperti, intervenuti ai vari convegni a Glasgow, hanno inoltre ricordato che, quand’anche una famiglia possieda una mezzo privato ecologico, se si tratta dell’unico a disposizione, più difficilmente verrà lasciato in uso alla componente femminile.
I comuni, per favorire una mobilità privata poco inquinante e che intasi meno il traffico, mettono a disposizione sistemi di abbonamento a biciclette e motorini elettrici ma, secondo alcuni studi, che lasciano un po’ perplessi su quantomeno l’autorevolezza del campione esaminato, non vengono scelti dalle donne perché considerati strumenti troppo pesanti.
Tralasciando qualsiasi commento su questa affermazione, prendendo il dato così com’è, rimane comunque il problema di una mobilità facile, veloce e sicura soprattutto per le donne.
Ma invece che trovare solo soluzioni alternative affinché le donne possano fare la spesa senza inquinare e senza farsi venire il mal di schiena, perché non iniziamo a tramutare in fatti concreti tante di quelle belle teorie che riguardano l’educazione della società per cui i “compiti” all’interno della famiglia vengono ripartiti in egual misura fra tutti i componenti del nucleo familiare?