Di Magali Prunai
Quell’estate del 2001 non avevo ancora compiuto 15 anni, avevo appena terminato il primo anno di liceo con una buona media e, come ogni estate della mia infanzia e adolescenza, dopo aver trascorso un periodo al mare, mi ero trasferita in montagna.
Mi trovavo sul classico cuccuzzolo di montagna, spersa da qualche parte in Svizzera, quando al telegiornale ticinese diedero la notizia della morte di Carlo Giuliani, un giovane manifestante al G8 di Genova che fu colpito da un colpo di proiettele vagante sparato, probabilmente, da un altrettanto giovane poliziotto. Poco dopo seppi anche della scuola Diaz, dell’ignobile pestaggio di ragazzi e non solo.
Il desiderio di partire e di raggiungere tutti quei manifestanti era forte, ma naturalmente non ebbi il consenso dei miei genitori ad allontanarmi dal cucuzzolo della montagna. Non mi restava che continuare a camminare per prati e sentieri, piena di rabbia in corpo mentre cercavo di capire che fine avesse fatto lo Stato in quei giorni e cosa fosse veramente lo Stato di diritto di cui si parlava tanto e che io, a quasi 15 anni, vedevo quanto meno latitante.
Il G8, o gruppo degli 8, era un forum politico fra gli otto grandi della terra (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti d’America e rappresentanti dellUnione Europea) svoltosi negli anni fra il 1997 e il 2014 quando si è trasformato in G7 a seguito dell’uscita dall’organizzazione della Russia. Lo scopo di questa iniziativa era ed è quella di parlare soprattutto di economia, riunendo le maggiori potenze industriali e finanziarie. L’obiettivo, fin dall’origine, quando ancora era G6, era quello di trovare risposte alle crisi economiche. Scopi nobili che, raramente, hanno prodotto reali soluzioni e, più probabilmente, parecchie dichiarazioni d’intenti.
Ogni anno, quando si svolgono questo tipo di riunioni, non mancano mai le proteste di chi non vede nel capitalismo soluzioni concrete e auspicabili. Quel 2001 gli animi erano sicuramente esacerbati da molteplici fattori e la voglia di gridare a tutto il mondo il proprio dissenso era incontenibile.
Tante manifestazioni, probabilmente poco organizzate e senza quello che una volta si chiamava servizio d’ordine, ovvero il controllo del rispetto delle regole e il placare gli animi dei più agitati da parte degli stessi organizzatori, la comparsa dei cosiddetti “black bloc”, un gruppo per lo più di anarchici, che si presentò a Genova in abiti scuri, bandiere nere, molto ben organizzati nell’incutere timore e vandalizzare e saccheggiare qualsiasi cosa, soprattutto quello che consideravano simboli del capitalismo, polizia in assetto antisommossa, pronta a colpire chiunque. Una città distrutta, messa a ferro e fuoco, provocatori confusi con chi manifestava pacificamente. Questa era Genova fra il 19 e il 21 luglio 2001: una guerra incomprensibile.
Nei miei occhi di adolescente, che vedeva il mondo o tutto bianco o tutto nero, che non conosceva vie di mezzo, negli occhi di una ragazza che sognava un mondo migliore, senza più sofferenze, era impossibile capire cosa stesse accadendo. Era inconcepibile tutta quella violenza da parte di chi doveva tutelare l’ordine pubblico, come non capivo perché delle manifestazioni che dovevano essere pacifiche e pacifiste si fossero trasformate in fenomeni di guerriglia urbana.
Negli anni sono arrivati i processi e le condanne, sia alla polizia che ai manifestanti. Sono arrivate, anche, le dure condanne politiche per i fatti della scuola Diaz, un oscuro capitolo nella storia dell’Italia repubblicana, per la morte di Carlo Giuliani, per la scelta inspiegabile di Genova per una riunione simile e per come degenerò la rabbia dei manifestanti e la reazione delle forze dell’ordine. Ma 20 anni dopo non abbiamo ancora risposte chiare sul perché tutto ciò sia stato possibile e sul perché tutto ciò si sia verificato.
* In foto: Palazzo Ducale, sede del G8 2001.