di Andreas Massacra

Quando andiamo in pescheria o al supermercato non siamo soliti pensare al mondo che c’è dietro il pesce che compriamo. Eppure alle spalle di quel prodotto ci sono questioni economiche, ambientali e geopolitiche. L’ultima in ordine temporale è quella che ha visto coinvolti Francia e Regno Unito. Dopo la Brexit infatti, si è assistito ad una vera e propria crisi della pesca, nella ridefinizione dei limiti delle acque per la pesca dell’isola di Jersey (che tecnicamente non fa parte di UK ma è possedimento della Corona). Gli inglesi hanno poste nuove limitazioni, suscitando le proteste di Parigi e Bruxelles che ritengono, sostanzialmente, che il governo del Jersey stia facendo melina con lentezze amministrative nel concedere l’autorizzazione alla pesca, eludendo de facto gli accordi che prevedono che i pescatori europei abbiano accesso alle acque britanniche, previa l’ottenimento di una licenza di pesca inglese. L’escalation è stata piuttosto rapida e imprevista: nuove condizioni inviate da Londra, due navi militari francesi e due inglesi hanno pattugliato le acque della piccola isola e Parigi ha minacciato di tagliare la corrente e l’energia a Jersey. Questo ha portato Londra a più miti consigli, riprendendo la via negoziale su una risorsa chiave per l’economia locale in primis ma nazionale, come vedremo nel secondo caso.

Infatti non è la prima volta che l’Europa è scossa da conflitti a bassa intensità per l’utilizzo e lo sfruttamento dei tratti di mare pescosi. Nella seconda metà del XX secolo c’è da ricordare la cosiddetta “Guerra del Merluzzo” combattuta tra Islanda e Regno Unito. Nel quadro della costruzione della sua indipendenza l’Islanda aveva deciso di allargare le proprie zone di pesca in maniera unilaterale andando a ledere gli interessi economici del Regno Unito, i cui pescherecci si spingevano sempre più a nord, in cerca di pesce azzurro, sia perché quei mari erano più pescosi, sia per le richieste sempre crescenti del mercato del pesce, sia perché lo sfruttamento della zona attorno alla Gran Bretagna aveva depauperato il mare facendo spostare, complice anche il traffico e l’inquinamento di quei tratti, il merluzzo sempre più a nord (in cerca magari di temperature delle acque più fredde). Il conflitto vide tre fasi (‘58-’61, ‘72-73’, ‘75-’76), dispiegamento di navi militari e guardia costiera, speronamenti e cannoneggiamenti, assalti all’ambasciata, sequestri di imbarcazioni, taglio di reti, un morto islandese e un ferito grave inglese. Ci furono oscillazioni del prezzo del pesce azzurro, e fu messa addirittura a rischio l’esistenza della NATO, in quanto l’Islanda e le basi che essa forniva sono un punto strategico chiave per il controllo del GIUK (sostanzialmente i tratti di mare tra Groenlandia-Islanda-Far Oer-UK e Francia), il cui dominio era fondamentale per la partita a scacchi con l’URSS nell’Atlantico. La Guerra vide una vittoria dell’Islanda (che aveva giocato la carta dell’abbandono della NATO) che obbligò i pescherecci inglesi a poter pescare solo una modesta quantità di pesce in acque islandesi; comportò una revisione della politica inglese sulla pesca in mare aperto e causò il crollo delle economie locali e l’aumento della disoccupazione nelle città portuali del nord dell’Inghilterra (Hull, Fleetwood e Grimsby), costringendo il governo di Sua Maestà a risarcimenti milionari. I 20 anni di tensioni modificarono il mercato delle esportazioni e delle importazioni del pesce e ridisegnarono gli equilibri del mercato ittico. Fu la più grave crisi interna della NATO, determinando veri e propri schieramenti: Repubblica Federale Tedesca, Belgio e Olanda in appoggio alla Gran Bretagna; Danimarca, Italia e Spagna a sostenere le ragioni islandesi (principalmente comprando il pesce la cui esportazione fu bloccata in Inghilterra, maggiore acquirente islandese).

Queste due brevi premesse storico-politiche per dire che il pesce, come qualsiasi risorsa limitata, entra a pieno diritto tra gli elementi per i quali si giocano partite geostrategiche non banali, soprattutto dato il sovrasfruttamento cui stiamo sottoponendo i mari. Uno sfruttamento eccessivo che causa squilibri alimentari e quindi stressa le politiche dei paesi che non riescono ad accedere a queste risorse per la propria popolazione (e sono per lo più paesi in via di sviluppo). Crisi nazionali e internazionali che andranno ad acuirsi in futuro data l’erosione in costante aumento della risorsa ittica.

In tutti gli oceani gli stock ittici sono in grave difficoltà per via della pesca eccessiva e distruttiva al tempo stesso. Il rapporto FAO del 2018 “The state of world fisheries and acquaculture” ha stabilito che il 93% degli stock ittici è sovra o completamente sfruttato e a questo contribuiscono in maniera decisiva anche la pesca illegale e il fenomeno del bycatch, ovvero catture accessorie e accidentali di mammiferi e uccelli marini, tartarughe, squali e numerose altre specie non direttamente oggetto di pesca ma che non possono essere sbarcate per dimensioni o perché non richieste. Risulta evidente come il progresso tecnologico, in questo caso sia andato a detrimento delle risorse naturali: pescherecci sempre più grandi (in grado di pescare fino a 300 tonnellate al giorno), con impianti di congelamento a bordo, reti a strascico (fino a 600 metri di lunghezza), con serbatoi di anno in anno più capienti per spingersi sempre più al largo e rimanerci per un tempo più lungo, hanno reso più facile la grossa pesca industriale, mettendo sotto stress le riserve ittiche e causando tensioni geopolitiche per il controllo di una risorsa che consumiamo più di quanto possa rigenerarsi.

L’acquacoltura non sembra una soluzione adeguata per il suo carattere intensivo che presenta i medesimi problemi degli allevamenti intensivi di animali terricoli.

Globalmente a livello procapite mangiamo circa 20,4 kg a testa, quasi 9 in più in Italia. In base al summenzionato rapporto FAO 2018 la produzione ittica ammonta a 171 milioni di tonnellate così suddivisi: 91 da pesca (dei quali 7 del tutto sprecate), di cui 26 di pesca illegale e 28,5 di bycatch e 80 da allevamento. La progressione è ancor meno incoraggiante, prevedendo 201 milioni di tonnellate di produzione ittica entro il 2030. In generale, nel 2019, il 9 luglio abbiamo esaurito le risorse ittiche dell’anno.
Tutto questo, unitamente allo sfruttamento delle medesime specie (come tonno o salmone) porta ad un impoverimento della biodiversità marina (nell’arco di soli 40 anni, si è registrata una diminuzione delle specie marine del 39%), con il mediterraneo che risulta il mare più sfruttato e il mare la cui biodiversità risulta più colpita.

Ma anche le ricadute socio-economiche di un eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche sono degne di nota: il settore della piccola pesca artigianale, che copre il 90% dell’attività, è minacciato economicamente dal 10% industriale. Se questo settore dovesse collassare, a rischio ci sarebbe il sostentamento di più di un miliardo di persone direttamente o indirettamente coinvolte nell’attività, e allocate per lo più in paesi poveri o in via di sviluppo. Pesca insostenibile e sicurezza alimentare ed economica di milioni persone nel mondo – pescatori, trasformatori, inscatolatori, così come tutti coloro che dipendono dal pesce come risorsa di nutrimento- sono strettamente legate.

La UE, che ha regole più ferree è però la prima importatrice al mondo, importando più del 50% del pescato (sul 60% del pesce consumato che importa) da paesi in via di sviluppo.

Dinnanzi a questo quadro tutt’altro che roseo, cosa si può fare? operare sicuramente su due fronti: da un lato agire in maniera sistemica e creare veri e propri santuari marini (in cui l’uomo non può esercitare alcuna attività), eliminare la pesca illegale e ridurre lo sforzo di pesca, passando dall’utilizzo di metodi di pesca distruttivi alla valorizzazione della pesca responsabile, a basso ambientale (con una legislazione che favorisce chi pesca in maniera sostenibile); dall’altro a livello individuale, diversificando i nostri consumi, evitando quelli (come pinne di squalo o datteri di mare) particolarmente invasivi, scegliendo pesce di stagione (il WWF ha fornito questa guida on-line https://pescesostenibile.wwf.it/) e quelli con il marchio certificato MSC** o ASC***

Tutelare il pesce significa garantire stabilità internazionale e sicurezza alimentare, ma ciò non sarà possibile senza una revisione del nostro ruolo, della nostra coscienza, di consumatori e non di divoratori.

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