di Andreas Massacra
Non in solo pane vivit homo. Ecco men che meno ci vivono gli stati e la società globale dell’informazione e dell’economia. Negli ultimi anni hanno assunto una crescente importanza le cosiddette “Terre rare”. Le Terre rare sono 17 elementi chimici della tavola periodica classificati come metalli: Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio, Ittrio, Promezio e Scandio. Questi elementi hanno un numero atomico compreso tra il 21 (scandio) e il 71 (lutezio), al crescere del numero atomico vedono diminuire le loro dimensioni perché gli elettroni non vanno nelle orbite esterne ma vanno a riempire quelle interne, non diventando elettroni di valenza e quindi partecipano raramente e con difficoltà alle reazioni chimiche. Da tutto ciò discendono una serie di proprietà interessanti e vantaggiose, per gli usi che ne facciamo: sono magneticamente stabili ad elevate temperature, duttili e malleabili, dilatano la luce, permettono una eccellente accumulazione di energia … di fatto non ce ne accorgiamo ma le Terre rare permeano la nostra vita perché sono utilizzate in tutti i settori dell’industria hi-tech: meccanica di precisione, strumenti di medicina diagnostica, industria missilistica, prodotti dell’informatica, energia eolica, solare, geotermica, batterie (per auto elettriche soprattutto) e lampadine a basso consumo (a mero titolo esemplificativo l’erbio è fondamentale per la fibra ottica, il neodimio per l’energia eolica, l’europio per le lampadine a basso consumo). Insomma sono fondamentali per la transizione energetica dal fossile e per le politiche necessarie ad attuarla. E le “Terre rare” non sono poi nemmeno così rare come dice il nome (che risale ad un secolo fa, tanto che la IUPAC li chiama ora semplicemente lantanoidi), avendo la stessa diffusione di rame e piombo.
Detta semplicemente così, sembrerebbe tutto facile, ma ci sono due grossi rovesci della medaglia. Il primo è che questi metalli non sono egualmente diffusi su tutto il globo, vi sono zone del mondo (Cina, parti dell’Africa e Australia) relativamente ricche, mentre altre zone molto più povere. Il secondo è il loro metodo di estrazione. Innanzitutto esso varia a seconda della densità del metallo, ed in secondo luogo è comunque fortemente invasivo per l’ambiente, perché bisogna separare le Terre da altre rocce e minerali. Per farlo sono richiesti acidi e solventi organici, molto calore e molta energia e centinaia di cicli, bisogna utilizzare gas tossici come il fluoro (allo stato gassoso ovviamente) e frantumare tonnellate su tonnellate di roccia (200 tonnellate di roccia per mezzo kilo di lutezio). Gli effetti collaterali sono ecologicamente pesanti.
Questo unito alla non omogenea diffusione ha fatto sì che le Terre assumessero un ruolo geopolitico rilevante, quanto petrolio e acqua. Per i costi economici e ambientali di estrazione, l’Occidente ha volentieri appaltato l’estrazione e la raffinazione delle Terre Rare in Cina, soprattutto. Nei primi anni ’90, quando si iniziava ad intravedere l’importanza delle nuove tecnologie e delle nuove forme di energia, Deng Xiaoping ebbe l’intuizione di implementare una politica di estrazione e raffinazione che ha portato la Cina, nel 2010, a coprire il 98% del mercato dell’offerta globale di Terre Rare. Una situazione quasi monopolistica dovuta a scarsa attenzione ambientale e abbondanza di materia prima, più facile per altro da estrarre per fattori geologici, rispetto a quella presente in altri stati. Gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per l’80% e l’Europa per il 98%.
Qui la partita si fa tutta geostrategica, in vista (più o meno lontana) della transizione (fino a che punto sarà una rivoluzione non è dato sapere) energetica. La Banca Mondiale dice che la produzione di metalli e minerali dovrà aumentare del 500% entro il 2050. Tre miliardi di tonnellate in tutto, di cui almeno 600 milioni dovranno essere di metalli rari. L’impatto geopolitico sarà rilevante. A tutto vantaggio della Cina che fino ad ora ha tenuto bassi i prezzi di esportazione, grazie al basso costo della mano d’opera, favorendo la dipendenza dell’Occidente, che di fatto è rimasto indietro anche nel know how e nello sviluppo delle tecnologie di estrazione e raffinazione. L’ex Celeste Impero ha già mostrato i muscoli con il Giappone nel 2010, tagliandogli il rifornimento delle materie prime per l’hi-tech. Il Giappone è stato così costretto a rivedere i propri fornitori per limitare i danni. Il potere cinese si è manifestato anche verso gli USA, quando, per rispondere ai dazi trumpiani, Pechino ha minacciato una riduzione dell’export di Terre rare. Non a caso, comunque, i dazi di Washington non hanno colpito quel tipo di prodotto.
Ad ogni modo i tempi stanno per cambiare anche per la Cina, infatti, ora pure il mercato interno cinese richiede rilevanti quote di materiali (al ritmo del 15% annuo). Ciò ha portato Pechino ad aumentare la produzione per non perdere l’esportazione e soddisfare la domanda interna, almeno in un primo momento, perché poi la scelta si sta rivelando sempre meno sostenibile, sia in termini economici che ambientali. Il nuovo obiettivo sarebbe quello di ridurre l’export al 30%, riservando il restante 70% alle industrie hi-tech cinesi, così da essere competitivi anche in quel campo, quello appunto del prodotto finito, settore dove è ancora in posizione subordinata rispetto al mondo Occidentale allargato a Corea e Giappone. Queste almeno sembrano le intenzioni. Se non sono solo proclami è da vedersi ma l’Occidente deve muoversi per trovare altre fonti di materie prime e altri paesi da sottoporre a stress ambientale (visto che anche la Cina inizia ad esserne satura).
Dopo la Cina infatti le più grandi riserve di Terre rare si trovano in Viet-nam, Brasile, Russia, India, Australia, Groenlandia e USA. Ad agosto 2020 Mosca ha annunciato un piano di 1,5 miliardi di dollari per ammodernare le sue strutture estrattive, incrementando la produzione fino al 10% entro il 2030 (non un obiettivo esattamente facile visto che parte dall’1,3 attuale), diventando così il secondo produttore al mondo. In USA si assiste invece alla continuità di fondo tra Trump e Biden: Washington ha elaborato un piano titanico per sfruttare giacimenti in Nebraska, Texas, Wyoming e Alaska e per riaprire (per la terza volta) lo storico impianto californiano di Mountain Pass. Anche l’Australia ha raddoppiato la sua produzione, portandola a 3,4 milioni di tonnellate l’anno sfruttando la miniera di Mount Weld e raffinando in Malesia. La UE punta invece sul riciclo dei materiali, sull’allargamento all’Africa e all’efficientamento della produzione locale (afnio e indio in Francia, gallio in Germania, germanio in Finlandia e altre terre rare in Romania che sta aprendo nuove sue miniere).
Ed è appunto l’Africa che sarà il campo della nuova partita geostrategica. La Cina ha già stretto accordi per assicurarsi un flusso stabile di terre rare e minerali per l’industria hi-tech: Mozambico, Madagascar, Guinea, Repubblica Democratica del Congo e Malawi. In questi paesi le industrie cinesi estraggono materie prime e le processano in loco, scaricando così i costi ambientali e legando a sé, a livello socio economico, quegli stati. Anche Mosca è presente in Madagascar e pure in Zimbabwe dove si stimano grandi giacimenti di cerio e lantanio. Gli USA si stanno invece muovendo in Burundi e Malawi per assicurarsi i diritti di estrazione. Il dinamismo di Washington, desideroso di emanciparsi da Pechino, si riscontra anche nella joint-venture australo-texana della Lynas Corporation che gestisce appunto Mount Weld.
La UE è forse più indietro in questa corsa, sfruttando in parte i legami ex coloniali dei singoli paesi e mettendo in campo, probabilmente tardivamente progetti continentali tra cui la European Raw Materials Alliance e la European Battery Alliance, per creare filiere europee di batterie elettriche e altri prodotti di alta tecnologia.
Si apre dunque una faglia di rivalità internazionale geografica, politica ed economica per la nuova economia dell’hi-tech e delle energie rinnovabili che dovrebbe sostituire il fossile. L’uomo dovrà estrarre più metalli rari nei prossimi 30 anni di quanti ne abbia estratti in 70000.
Siamo sicuri che il modello di economia alternativo rispetto al fossile, basato sulle Terre rare, vada a ridurre conflitti e contrasti per il potere? Oppure alle tensioni per il petrolio si sostituiranno quelle per i metalli, rimpiazzando una vecchia dipendenza con una nuova? E se il problema non fosse squisitamente tecnico ma coinvolgesse la nostra nozione di una società e il paradigma economico che vogliono e vedono solo progresso purchessia?