di Andreas Massacra
Senza molte cose possiamo vivere ma non senza acqua. Sia in termini di disponibilità che di qualità, l’acqua sarà la risorsa chiave del futuro.
Il riscaldamento globale e i mutamenti climatici stanno già facendo sentire i loro effetti sulle risorse idriche, cui si aggiunge anche la crescita della popolazione, che continuerà ad aumentare almeno fino al 2100 , secondo le stime ONU (8.5 miliardi nel 2030, 9.7 miliardi nel 2050, 10.9 miliardi nel 2100).
L’acqua è una delle pochissime sostanze che si rinnova attraverso il suo proprio ciclo ma stiamo utilizzando l’acqua – quella che si può utilizzare – più velocemente di quanto possa essere rinnovata. E noi la utilizziamo per tante cose, non solo per bere: forniamo servizi igienico sanitari; la utilizziamo per produrre energia, per raffreddare impianti, nell’uso degli alimenti e di altri prodotti industriali; con essa ci laviamo, gestiamo i mezzi di trasporto ma soprattutto ci coltiviamo i campi. L’uso agricolo è infatti uno dei più importanti, perché carenza d’acqua significa carestia, aumento dei costi del cibo, necessità di importazione dello stesso e immiserimento della popolazione. Non diamo il tempo all’acqua di compiere il suo normale ciclo di vita. E ciò è dovuto a quanto detto sopra, ovverosia aumento della popolazione e surriscaldamento globale. Ma perché abbiamo detto, poco sopra in un inciso, quella che si può utilizzare? Il 97% dell’acqua della Terra è salino, difficile se non impossibile da utilizzare per gli scopi anzidetti. Il 3% è costituito da acqua dolce, ma di questo 3% quasi il 70% circa è racchiuso nei ghiacci polari, il 30% è racchiuso nel sottosuolo e solo lo 0,03% è acqua potabile ( o che si può rendere facilmente tale) disponibile in laghi, stagni, fiumi e corsi d’acqua. Ora siamo 7,7 miliardi a dover usufruire dello 0,03%: da Malthus non si scappa, verrebbe da dire.
Queste premesse generali sono funzionali per mettere in risalto l’importanza dell’acqua non solo come risorsa di vita ma anche geostrategica, perché coinvolge l’economia e la politica degli stati che si troveranno a far fronte ad una risorsa sempre più carente e non più in grado di rinnovare se stessa ad un ritmo tale da soddisfare le esigenze delle popolazioni. A livello globale il conflitto non è ancora emerso ma esistono già scenari locali in cui è in atto una vera e propria guerra dell’acqua: Asia Centrale, India e Indocina.
Tagikistan e Kirghizistan hanno spesso avuto rapporti molto altalenanti, sin dall’indipendenza dopo la caduta dell’Urss ma non si era mai arrivati ad uno scontro di frontiera che poteva portare rapidamente ad una escalation come quella di poche settimane fa. Solo 504 dei 970 km di confine tra i due stati sono ufficializzati e 70 km sono aspramente contesi. In questo scenario, tralasciando le difficoltà politiche interne dei due stati, si è aggiunto l’ultimo conflitto che riguarda Golovnoy un punto della distribuzione dell’acqua sul fiume Isfara, nella zona dell’exclave tagika di Vorukh vicino al villaggio di Kok-Tach, contesa dai due Paesi. In uno scenario da steppa, dove la carenza d’acqua è endemica e sta peggiorando con il cambiamento climatico e dove le sassaiole (e i suicidi) tra contadini che se la contendono sono usuali, lungo il corso del fiume si trovano le aree fertili e la stazione di distribuzione garantisce l’acqua a Vorukh. Il casus belli potrebbe essere stata una telecamera di sorveglianza installata il 28 aprile posta dai tagiki e vista come provocazione dai kirghizi (ma le versioni discordano). Sia come sia da questo si è arrivati agli spari che hanno presto lasciato il posto ai mezzi pesanti e all’artiglieria: 15 deceduti e 90 feriti tra i tagiki, 34 morti e 178 feriti tra i kirghizi. Difficile stabilire le responsabilità, ma la tregua del 3 maggio sotto l’egida di Santa Madre Russia pare reggere. In mezzo c’è anche poi il traffico di droga dall’Afghanistan e la costruzione di tunnel e strade. Ma è emblematico che la “goccia che ha fatto traboccare il vaso” sia proprio il controllo dell’acqua.
Il secondo caso sono le rivolte intestine in India. L’india, il secondo produttore mondiale di generi alimentari nel mondo, e il più grande esportatore di riso, possiede solo il 4% delle risorse idriche. La coltura estensiva del riso (12 milioni di tonnellate l’anno) richiede una enorme quantità d’acqua e ciò, soprattutto nel nord del paese (dove il riso è traino dell’economia) ha prodotto un notevole abbassamento della falda freatica con l’iper-sfruttamento dei bacini. Haryana e Punjab hanno poco più di 25 anni di possibilità di riconversione agricola se non voglio rischiare di trasformarsi in deserti. Per altro i contadini hanno necessità di scavare pozzi sempre più profondi e acquistare nuove macchine escavatrici e nuove pompe, dovendo perciò mettere in affitto o vendere i loro terreni che, appunto perché non attrezzati, valgono la metà. Perdendo il terreno vanno ad accrescere la massa degli slums delle malsane metropoli. Il problema è particolarmente grave nel Punjab (detto anche terra dei cinque fiumi) che tra fine XIX e inizio XX secolo era stato oggetto di un massiccio intervento di canalizzazione da parte degli inglesi, portato però al parossismo dal governo Nehru e dai suoi successori. La regione ebbe uno sviluppo economico rapidissimo, ma a un prezzo ambientale e sociale altissimo: con la costruzione di enormi dighe tra il 1974 e il 1992, 20 milioni di indiani furono costretti a trasferirsi, il patrimonio forestale venne distrutto (soprattutto in Uttar Pradesh) e sui bacini allagati si abbatté la malaria. Il riso pareva garantire una sicurezza alimentare più salda rispetto a miglio, legumi e mais (che si coltivavano in quelle zone in precedenza) ma vediamo ora i suoi effetti.socio-ambientali. Alla situazione di indebitamento del contadinato si aggiunge la scure del cambiamento climatico con le piogge monsoniche sempre più imprevedibili, e le estati sempre più calde e la conseguente evaporazione veloce dell’acqua che minano la resa delle risaie. Questa è la situazione che sottende alla numerose proteste contadine che vanno avanti da agosto 2020 nel nord dell’India e a Nuova Delhi che mettono in difficoltà i governi locali e quello federale che stanno provando a varare una riforma per liberalizzare l’agricoltura, privando i contadini di prezzi garantiti sui raccolti e di tutela sui terreni.
L’ultimo episodio che prendiamo brevemente in oggetto è quello che portò nel 2016 alla crisi nel delta del Mekong e che coinvolse Viet-Nam, Cina e Laos. “El nino” aveva causato un insolito aumento delle temperature che aveva prodotto la più grave siccità degli ultimi 100 anni nella regione del delta del Mekong. La peggiore ondata di calore negli ultimi 137 anni ha causato una siccità che ha investito l’intero corso del Mekong, provocando gravi danni soprattutto all’agricoltura in Cambogia, Laos, Thailandia e Myanmar oltre al Vietnam che ha fatto registrare un calo del PIL di più di un punto percentuale, per effetto dell’impatto della carenza di acque sull’agricoltura con il consequenziale aumento dei prezzi ai danni, in gran parte, dell’alimentazione dei paesi poveri. Il Viet-Nam ritiene parzialmente responsabile la Cina che ha sei grandi dighe nell’alto corso del Mekong in Tibet. Pechino, secondo Hanoi, trattiene con le dighe le acque raccolte nella stagione dei monsoni dai ghiacciai impedendo al livello del fiume di salire come il suo ciclo naturale prevede, con il risultato di far diminuire le acque. La Cina ha quindi una forte arma politica-ambientale di pressione nell’intero sud-est asiatico, controllando il flusso del grande fiume e dei suoi affluenti. Il serio rischio è quello di conflitti fra nazioni innescati da dispute sulle acque dolci a causa del sistema di dighe costruite da Pechino alle sorgente dei grandi fiumi asiatici che si trovano nella regione dell’Himalaya. Il Viet-nam (troppo debole per ribellarsi alla Cina), ha inoltre accolto con grande ostilità il progetto del Laos di costruire 11 dighe sul tratto del Mekong che attraversa il proprio territorio. Ma anche l’ex Celeste Impero è alle prese con un’emergenza-acqua dovuto, secondo uno studio del ministero delle Risorse idriche di Pechino,alla scomparsa di circa il 55 per cento degli oltre 50 mila fiumi che attraversavano la Cina fino agli anni Novanta. La Banca Mondiale e l’Unicef ritengono poi che la carenza d’acqua in Cina sia conseguenza della brusca accelerazione del numero di persone che hanno avuto accesso a maggiori quantità di acqua nelle loro case e città (più di mezzo miliardo in 30 anni), portando Pechino a dover costruire enormi bacini idrici. Il contenzioso sulle risorse idriche in Estremo Oriente diventa così il risultato della sovrapposizione fra crescita cinese, surriscaldamento del clima. Una nuova zona calda non solo climaticamente.
Pensiamoci su prima di lasciare il rubinetto aperto quando ci laviamo i denti.