di Andreas Massacra
Con queste brevi considerazioni vorrei chiudere un breve giro di panoramiche sull’ambiente iniziato con un esempio di climatologia storica e proseguito con alcune riflessioni sulla plastica e le pratiche di riforestazione.
Secondo l’International Displacement Monitoring Center, nel 2017 ci sono state più di 18 milioni di persone obbligate a spostarsi per cause climatiche e nel 2019 i rischi legati a eventi meteorologici hanno costretto alla fuga circa 24,9 milioni di persone in 140 Paesi e entro il 2050 si stima che saranno circa 200 milioni: in Sud America da 6 a 12 milioni, in Africa da 25 a 34 milioni, in Asia da 70 a 156 milioni.
Cifre impressionanti ma che da sole non descrivono il problema che coinvolge molti aspetti: politici, economici, sociali e sanitari.
Il cambiamento climatico con l’innalzamento delle temperature ha effetti variegati e devastanti. L’innalzamento dei mari (dovuto allo scioglimento dei ghiacci che porterà ad un aumento di 82 cm entro il 2100) sommergerà molte zone costiere, l’aumento delle temperature dell’acqua e delle correnti oceaniche influenzerà la pescosità dei mari; l’inaridimento della terra, l’estensione delle fasce climatiche secche, la galoppante desertificazione (le aree desertiche arriveranno a ricoprire quasi un quinto del territorio del pianeta), la maggior frequenza dei monsoni e quindi le sempre più frequenti alluvioni… ecco tutte queste cose metteranno a repentaglio la possibilità non solo di vivere, ma di sopravvivere, di milioni di persone nei loro luoghi di origine che diventeranno inabitabili perché sommerse oppure troppo calde, con una temperatura media di 29 gradi: banalmente poi l’innalzamento del livello dei mari comporta una sempre maggiore salinizzazione del suolo, fenomeno che ha gravi conseguenze sull’agricoltura e che è naturalmente contrastato dalle piogge. Con i cambiamenti nelle precipitazioni e le siccità, però, questo ciclo è messo a rischio.
Il problema riguarda tutti, anche i paesi benestanti, che sembrano fare orecchie da mercante, basti pensare alla eterogeneità dei territori colpiti, dagli incendi in Amazzonia, ai tornado nella Corn Belt, dalla siccità in Etiopia e al dissesto idrogeologico evidente sempre più nel Bel Paese. Se per il momento i movimenti migratori di persone sembrano contenuti all’interno dei paesi stessi (in quelli più poveri in primis ma già negli USA si inizia ad intravedere il fenomeno dalla Florida e dalla California verso nord), dove si assiste ad un inurbamento galoppante, cui contribuiscono anche altri fattori, come le richieste dell’economia globalizzata, presto le migrazioni travalicheranno bruscamente i confini dei singoli stati.
I migranti, ma ci verrebbe da dire “rifugiati” climatici, hanno poi una peculiarità rispetto a chi emigra per motivi economici, politici (includendo in questo anche la guerra come causa): data la portata sovrumana del cambiamento dei loro territori, è quasi impossibile che rientrino nel loro territorio di origine, non più adatto a sostentarli, non più abitabile oppure non esistente (e così rischia di essere per un lungo periodo).
Questi spostamenti di ragguardevoli masse di persone pongono poi problemi, politici, sociali, culturali ed economici. In sé e per sé il cambiamento climatico non è causa immediata di disordine, ma aumenta l’insicurezza alimentare, complica l’accesso ai mezzi di sussistenza e accresce la pressione sul sistema educativo e appesantisce i servizi sanitari. A questi fattori va aggiunto che copiose migrazioni pongono a contatto gruppi consistenti e identità diverse, andando a favorire ed acuire conflitti identitari. Inoltre il massiccio inurbamento di persone che non trovano più sussistenza nelle campagne, provoca la nascita di grandi periferie incontrollate, con alta disoccupazione e alta densità abitativa e che spesso, soprattutto nelle megalopoli, non sono fornite di adeguati servizi idrici e stanno in precarie condizioni igieniche. Inutile dire che questi due fattori possono avere, hanno avuto e hanno ora un ruolo chiave come catalizzatori pandemici, essendo luoghi di difficile contenimento. Come sempre poi la marginalità sociale comporta, fisiologicamente, instabilità e delinquenza più o meno diffusa.
Un mix esplosivo di marginalizzazione sociale che va ulteriormente a destabilizzare quegli stati che già non hanno solide finanze e programmi di welfare. Nei grandi conglomerati urbani poi le persone saranno più vulnerabili alle inondazioni o ad altri disastri ambientali. Passare da migrazioni intrastatali a migrazioni interstatali è solo questione di tempo. Il problema è che l’orizzonte non appare così immediato, nei suoi archi temporali per porre in essere politiche preventive. Ad oggi il problema è stato molto sottovalutato e tanto gli Stati quanto le organizzazioni internazionali (in buona misura) non hanno percepito l’urgenza in tutta la sua prossimità futura.
Affrontare questa sfida significa avere un approccio multidisciplinare e olistico. In primo luogo si deve agire cooperativamente e a livello internazionale per mitigare e rallentare il cambiamento climatico, almeno nella sua parte antropica che rappresenta la componente principale delle mutazioni ambientali. In questo sarà cruciale il ruolo dei grandi colossi industriali quali Cina, India, USA, Russia, UE e limitrofi e i paesi sui quali giacciono i polmoni verdi del pianeta.
Poi c’è un aspetto giuridico e normativo che riguarda il livello del diritto internazionale sui generis e a cascata quelli nazionali che lo recepiscono, mancando infatti sia un consenso internazionale sui termini e sulle loro implicazioni pratiche sia la tutela e la protezione delle persone costrette a fuggire a causa dei cambiamenti climatici, poiché non vi è codifica unanimemente riconosciuta nel diritto internazionale. Oltre all’applicazione delle normative già esistenti, occorre dunque contemplarne di nuove (oppure modificare le attuali, Convenzione sui rifugiati del 1951).
Poi c’è un aspetto tecnoalimentare che deve puntare ad una produzione sostenibile: occorre modernizzare l’agricoltura e le infrastrutture idriche in quei paesi in cui, in virtù di conflitti e cambiamenti climatici che portano desertificazione e inondazioni, vige una evidente insicurezza alimentare e idrica.
Un ulteriore ambito, che è quello squisitamente politico, ovverosia quello riguardante le scelte di intervento che i paesi del fu “Primo Mondo” intraprenderanno non solo per promuovere una svolta ecologica con la riduzione di emissioni, ma anche per affrontare le masse di rifugiati climatici che cercheranno di attraversare i loro confini e quindi per gestire la migrazione inevitabile investendo in educazione e programmi di sostegno a quelle popolazioni, finanziando lo sviluppo locale e modernizzando l’agricoltura e le infrastrutture idriche. L’obiettivo principe dovrebbe essere quello di prevenire le migrazioni adottando un impegno sistematico nel sostenere le popolazioni più vulnerabili nei luoghi in cui vivono e che per ragioni politiche, economiche, sociali e culturali non possono ora abbandonare, evitando che si ingrossino le fila di coloro che già sono colpiti direttamente o indirettamente (crisi sociali e politiche innescate da insicurezza alimentare dovuta ai cambiamenti climatici) dalla necessità migratoria.
Se invece i governi del Nord del Mondo decideranno di chiudersi, adottando un atteggiamento punitivo contro i migranti, l’insicurezza alimentare aumenterà, così come la povertà e i conflitti.
Non sappiamo se ci sia o meno sovranità nella solitudine (forse sì, non ce ne voglia Draghi), ma di sicuro senza cooperazione difficilmente ci sarà la pace.