Di Magali Prunai
Era circa un anno fa, il paziente numero uno di Codogno era già ricoverato in ospedale e tutta la Lombardia viveva momenti di paura e sconcerto. Ancora non eravamo in “lockdown”, ma il clima apocalittico era dietro l’angolo. Un febbraio uggioso quello del 2020, piovoso e ventoso. Non era poi così inusuale passeggiare in strade deserte con solo qualche foglia che svolazzava da una parte all’altra. Se non lo avessi vissuto direttamente avrei pensato a uno di quei film di terz’ordine su invasioni aliene e asteroidi che minacciano la terra.
Proprio in una di quelle giornate desolate, con la didattica a distanza attiva già da qualche tempo, decido di fare da baby-sitter al nipotino che, all’epoca, aveva otto mesi, portandolo a passeggio. La sua carrozzina – passeggino, modello fuori strada, era comodissima per i sentieri di montagna ma un po’ meno per le strade dissestate e poco lisce di Milano. Un controsenso, penserete, ma è meglio una radice di albero che sporge dal terreno che buche e buchette su marciapiedi storti e pendenti, con discesette quasi mai a livello della strada e pavimentazione stradale dissestata, con le rotaie del tram pericolosamente sporgenti.
Quel giorno di circa un anno fa ho capito pienamente tutto il disagio e la sensazione di inadeguatezza che provano molte donne nei primi mesi dopo il parto. Non mi riferisco alle difficoltà di movimento, con auto e furgoncini piazzati sui marciapiedi che costringono a tentare la sorte in mezzo alla strada o a chi scambia la carrozzina di un neonato per un moderno ariete, alla quale accodarsi e utile per farsi strada nella calca cittadina. Ciò di cui parlo è un atteggiamento più sottile, alle volte inconsapevole, ma sempre più spesso voluto, che mina la fiducia della donna in se stessa, inasprendo tutto il disagio psicologico inevitabile dopo un parto e non semplice da sopire, combattere, sconfiggere.
Passeggiando per il centro decido di fermarmi in una pasticceria siciliana per prendere dei cannoli alla ricotta per una gustosa merenda pomeridiana. Unica cliente, ne ordino una piccola quantità da portare a casa a nonni e genitori. La ragazza dietro al bancone, dopo aver fatto un po’ di moine al bambino, inizia a prepararli ma la ricotta è un po’ dura e va un pochino lavorata. La commessa si scusa, mi chiede se posso aspettare e conclude, evidentemente pensando che il bambino fosse mio figlio, “tanto cos’altro hai da fare?”
Cos’altro avrà mai da fare una donna che non sa se avrà ancora un lavoro terminata la maternità, se non è già rientrata a lavoro e non subisce angherie varie perché ha avuto la bella pensata di diventare madre, che deve nutrire, crescere ed educare l’uomo del futuro, gestire la casa dove abita, forse altri figli, non rischiare di sprofondare in una condizione di abbrutimento totale, fisico e mentale?
In quel momento ho provato io stessa, zia e non madre di quel bambino, umiliazione e rabbia. Umiliazione perché il mio ruolo di essere umano, di essere senziente e cosciente era stato svilito e ridotto solo a quello di “fattrice”, accudire un neonato come unica ed esclusiva occupazione, di scarso valore.
E tanta rabbia, rabbia perché un’affermazione simile era arrivata da un’altra donna, perché una donna giovane ancora oggi ha una visione così ristretta dei ruoli all’interno della società.
Una visione piccola che apre la strada a tutte quelle discriminazioni di cui sentiamo ogni giorno e che, talmente comuni, ormai ci sembrano quasi normali. Discriminazioni come le lettere di dimissioni in bianco da tirare fuori in caso di gravidanza, i salari più bassi, il minor numero di donne nel mondo del lavoro.
Problemi dei quali parliamo ogni giorno e per i quali, in concreto, non si è ancora fatto quasi nulla perché vengano quanto meno arginati. Problemi che per primi noi cittadini comuni dobbiamo combattere uniti, compatti, senza la convinzione che l’importante è che non accada a noi e poco importa se riguarda altri.
Ma nel momento in cui un episodio spiacevole tocca il proprio vicino, è già arrivato anche a noi e ci riguarda. Ci riguarda come singoli e come società. Perché la società è costituita da ognuno di noi, e solo il reciproco aiuto e la reciproca comprensione potrà veramente aiutarci.