di Andreas Massacra
Sono molte le amministrazioni pubbliche e le aziende private italiane che negli ultimi anni si sono dichiarate “plastic-free”, prendendo iniziative per la riduzione dell’uso della plastica, in special modo quella monouso, sostituendola con materiali biodegradabili.
La plastica è quasi onnipresente nelle nostre vite, e di fatto ha un suo ciclo biochimico che ha assunto dimensioni planetarie: tutti noi abbiamo presente la grande isola di plastica nel Pacifico, ma il Centre for Ecology and Hydrology di Liecester ha stimato che sulla terra ferma la quantità dispersa di plastica sia almeno 4 volte superiore a quella degli oceani e questo causa un problema perché nel lento ciclo dissolutivo della plastica le micro e nano plastiche si ritrovano nelle falde acquifere, nell’aria che respiriamo, nella pioggia e ovviamente nel cibo (non solo nei pesci).
Tuttavia la plastica è davvero un materiale straordinario ed è questa la sua delizia: è un materiale leggero (quindi trasportarlo sia come materiale a sé che come componente del mezzo stesso richiede meno energia), è adattissimo alla conservazione dei cibi (se non avessimo contenitori in plastica probabilmente sprecheremmo molto più cibo), è un materiale versatile (con opportune azioni chimiche svolge molte funzioni diverse).
La plastica era ben presente già prima della II Guerra Mondiale ma la sua diffusione ricevette una impennata grazie alla guerra e alla susseguente crescita economica senza precedenti.
La guerra infatti imponeva l’uso della plastica per la difficoltà di reperire altri materiali la cui scarsità ne faceva inoltre lievitare i prezzi.
Le plastiche, che sono polimeri, sono derivati del petrolio, materia prima disponibile in quantità e, se rapportato ad altro, a basso prezzo. Le raffinerie, per polimerizzare la plastica, usano poco meno del 5% degli idrocarburi, operazione che per altro richiede una bassa quantità di energia. Per queste sua caratteristiche eccellenti è diventata il prodotto simbolo delle civiltà del consumo: polipropilene, polietilene, polivinile, poliuretano, polistirene...sono tutti materiali con cui noi abbiamo a che fare quotidianamente, considerando che quasi il 50% della plastica prodotta a livello mondiale, come sottolineato nel recente paper di Roland Geyer dell’Univeristà della California (Production, use, and fate of all plastics ever made luglio 2017) è dedicata agli imballaggi di varia natura. Non solo ma l’impatto ambientale, l’impronta ecologica, della plastica, se paragonato a vetro e alluminio è estremamente minore, anche solo per l’inquinamento che si provoca per ottenerla, garantendo al contempo una durata di materiale largamente a scala d’uomo.
Questa sua delizia è però la nostra croce, nella civiltà del consumo, infatti, la plastica è stata ritenuta come un materiale povero, di bassa lega, di conseguenza non è stata vista come una risorsa da gestire con oculatezza ma come un prodotto monouso. Su scala globale ha prodotto i danni che conosciamo e conosceremo presto, dato che di tutta la plastica prodotta negli ultimi 20 anni, solo poco meno del 1,2% è stato riciclato (fonte rapporto UNEP del giugno 2018).
Il motivo, al di là dell’esserci accorti a livello mondiale molto tardi del problema plastica (grazie alla BBC e al documentario Blue planet) , è che molti prodotti in plastica sono l’unione di polimeri diversi e per riciclarla occorre scomporla con costi energetici (quindi ambientali) ed economici non indifferenti. Del resto una volta raffreddata la plastica non è più modellabile come all’inizio della sua polimerizzazione. Verrebbe da dire: “E’ la termodinamica, bellezza!”.
Ed è per questo che la plastica usata ha ancora valore, perché ha una durata sovrumana. Palesemente per una azione su vasta scala, i provvedimenti privati e locali non sono sufficienti: in questo campo è lo stato che deve agire, sia con norme stringenti (vietare i cottonfioc), sia con incentivi alle aziende a produrre polimeri eco-compatibili, sia penalizzare le industrie che producono prodotti difficili da riciclare, sia allargare le maglie legislative, consentendo il riuso della plastica da imballaggio nella grande distribuzione (previa riprogettazione degli imballaggi stessi, finanziando la ricerca).
Il solo bando della plastica non è sufficiente senza una conversione industriale ed economica e senza un mutamento del nostro modo di pensare l’utilizzo della plastica stessa