di Magali Prunai

Eccomi qua, di nuovo a parlare di covid. In questi mesi ne ho scritto spesso perché ritenevo necessario farlo. Credo sia ancora necessario parlarne, per non abbassare mai la guardia e, soprattutto, per non lasciarsi prendere dagli eccessi, di qualsiasi natura essi siano.

Per parlare di Covid19 questa volta devo prenderla alla lontana. Era il 1940 e mio nonno, Giulio Prunai, andò a ritirare il foglio con segnata la sua destinazione. Lui, giovane archivista dell’archivio di Stato di Siena, si ritrovò a organizzare la partenza per la Francia. Partiva a malincuore perché la situazione non era così certa e temeva per la moglie e il figlio di appena 4 anni, mio padre.

A settembre 1943 dal forte dove si trovava captarono alcuni messaggi riguardanti il cambiamento di rotta dell’Italia, chiesero conferma ma il comando generale della marina, a Roma, non dava segni di vita. La notte fra l’otto e il nove settembre chi era a comando del forte scappò, in abiti civili e con la cassa. Mio nonno il 9 settembre 1943 si alzò come tante altre volte nel suo alloggio non militare, indossò la sua divisa e si recò a prendere servizio. Per la strada chiunque incontrasse lo fermava per dirgli quanto accaduto, offrendo abiti civili e un nascondiglio. Lui, forse incredulo o chissà perché, volle andare a verificare coi suoi occhi. Scoprì di essere il più alto in grado rimasto, ormai al comando del forte. Né lui, né chi era con lui poterono fare molto. Arrivò una pattuglia tedesca a comunicare che Germania e Italia non erano più amiche, che Mussolini aveva creato un nuovo stato riconosciuto dalla Germania al quale potevano aderire. Chi voleva far parte della Repubblica Sociale poteva fare un passo avanti. Non lo fece nessuno. Furono tutti disarmati e caricati su dei furgoni perché, dissero loro, dovevano fare degli accertamenti prima di poter essere lasciati liberi di tornare a casa. Furono spediti tutti nei campi di concentramento con la qualifica di IMI: militari italiani internati. Non erano prigionieri di guerra, non godevano dello stesso trattamento, ma non erano neanche semplici prigionieri. A metà strada fra la spazzatura e i rifiuti tossici. Mio nonno fu spedito a Wietzendorf.

Intanto a Siena si faceva la fame. Siena, la città del Palio, del panforte e di Gianna Nannini, la rivale storica di Firenze, che diede i natali a Santa Caterina che andò a prendere il Papa ad Avignone per riportarlo a Roma, era in uno stato pietoso, come tante città italiane. Rientrava fra i territori annessi da Mussolini alla sua repubblica, occupata dai tedeschi, veniva bombardata di continuo. La casa di riposo dove risiedeva la mia bisnonna venne quasi distrutta da un bombardamento. Mio padre frequentava la scuola elementare ogni tanto la mattina, ogni tanto al pomeriggio, altre volte alla sera. Già, bambini di 7 o 8 anni che andavano nel tardo pomeriggio a scuola perché quella settimana gli era capitato quel turno. Altre volte scuola si faceva in altri luoghi, come alcune stanze del conservatorio o di qualche dopo lavoro. Spesso la maestra distraeva i bambini spiegando geografia o storia nei ricoveri antiaerei, dove si erano rifugiati. Ed era così per tutte le scuole, elementari, medie e licei. Nessuno escluso. C’è chi sotto alle bombe ha sostenuto l’esame di maturità, chi la licenza elementare e chi ha imparato a leggere e scrivere.

I ricoveri antiaerei dicevo…i film ce li mostrano come delle cantine o luoghi simili, spesso freddi e umidi. Erano proprio così, erano luoghi angusti, dove prendersi qualche malattia non era poi così raro. Una volta, dopo aver dormito per giorni nel ricovero, a mio padre venne una forte otite. Fu curato da un veterinario con il metodo che si usa per i cavalli, sperando che non fosse necessario uscire a cercare qualcun’altro. Questo racconto ha sempre permesso a noi figli di scherzare, al caldo del nostro salotto in tempo di pace e ricchezza, che è per questo che si ritrova un carattere un po’ bizzoso, tipico dei cavalli.

Un giorno i tedeschi partirono di corsa, seguirono giorni bui di bombardamenti continui. Alla fine arrivarono gli scozzesi, incontro ai quali andò la cittadinanza improvvisando un mini corteo storico, con abiti medioevali e squilli di chiarine per far capire che erano liberi e non ostili.

Il campo in cui si trovava mio nonno fu liberato a maggio del 1945, lui riuscì ad arrivare a casa, per lo più a piedi, solo a settembre di quello stesso anno. Prima ancora di andare a casa lui e altri due suoi compagni si presentarono al comando a Firenze, soprattutto per chiedere da mangiare. Si sentirono rispondere che l’ora di pranzo era passata, dovevano arrivare prima. Mio nonno prese un tavolo, lo scaraventò in terra fracassandolo e chiese di nuovo del cibo. Fu subito apparecchiata una tavola e servito il pranzo a questi tre relitti umani, con la divisa logora. Non poteva sapere che, sentito il suo nome alla radio fra i reduci, mia nonna ogni giorno apparecchiava per lui e teneva da parte del cibo non sapendo a che ora sarebbe tornato.

Dopo aver mangiato e salutato i suoi compagni, entrambi fiorentini, prese l’autobus che da Firenze porta a Siena, quando se lo ritrovò davanti il bigliettaio non voleva farlo pagare. Lui si rifiutò e comprò il suo biglietto.

Ha sempre ricordato commosso un piantone davanti a una caserma che si mise sull’attenti vedendolo passare, mentre si incamminava verso via di Porta Camollia nella speranza di trovare sani e salvi la moglie e il bambino.

Quel pomeriggio mio padre era alla finestra a fare ginnastica. Il medico lo aveva trovato gracilino, come tanti altri bambini, e non potendo ordinare bistecche e ricostituenti consigliò l’attività fisica. La sua attenzione fu attirata dalla gente che urlava per la strada. Siamo in una di quelle vie dove tutti un po’ si conoscono e dove tutti urlavano di gioia perché era tornato, logoro e scheletrico ma vivo.

Sono storie di famiglia, capitate uguali o simili a tanti italiani. Mi sono tornate alla mente questa mattina, mentre leggevo dei bambini che hanno fatto la didattica a distanza lo scorso anno scolastico e che ora sembra ne scontino le conseguenze con enormi lacune ortografiche e difficoltà nel socializzare.

Negli anni ’40 una donna come Margherita Hack ha finito gli studi superiori, nonostante la guerra, le bombe e la paura. La speranza è che nel 2020 in più di una scuola, di qualsiasi ordine e grado, ci sia stato chi non si è lamentato, si è rimboccato le maniche sapendo comunque di essere molto più fortunato di tanti altri coetanei nel tempo e nello spazio.

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