di Magali Prunai
Recentemente ho letto un articolo su un noto quotidiano cattolico a proposito di una suora argentina che, occupandosi da oltre trent’anni di ragazze sole, abbandonate o che hanno subìto qualsiasi tipo di abuso, viene definita la “suora femminista”. Subito qualcuno non ha colto l’occasione per tacere e, invece di applaudire una persona che ha trovato uno scopo al suo vivere, ha polemizzato sul termine “femminista”, inteso in una accezione negativa e distorta.
Da tempo immemore, infatti, “femminismo” e “donne che odiano gli uomini” vanno di pari passo, identificando negativamente un movimento e snaturando e vanificando le sue ragioni, le sue lotte e le sue conquiste.
In realtà il “femminismo” si porta dietro secoli di lotte per l’emancipazione femminile.
Una richiesta di maggiori diritti, di riconoscimento del ruolo della donna
all’interno della società non come moglie, madre o sorella ma in quanto donna e come parte attiva della stessa. Una donna che non è dedita solo alla cura della casa e della prole ma che è in grado di sviluppare un pensiero, un ragionameto, di produrre qualcosa.
Una delle prime a portare avanti istanze simili fu Christine de Pizan nella sua opera “la città delle dame”. Christine de Pizan, nonostante sia vissuta a cavallo fra ‘300 e ‘400, fu istruita come i fratelli maschi, caso più unico che raro per l’epoca.
Grazie all’istruzione ricevuta, alla morte del padre e rimasta anche vedova, fu in grado di provvedere alla propria famiglia. Nella sua opera più famosa, attraverso un metaforico incontro con Ragione, Rettitudine e Giustizia, l’autrice viene incaricata di costruire una città nuova le cui fondamenta devono basarsi su personaggi femminili noti all’epoca per le loro qualità, come scienziate, filosofe, regine e sante.
Afferma anche che non è vero che l’uomo è più propenso a certi studi rispetto a una donna, la differenza fondamentale sta nell’accesso all’istruzione che alle donne era negato.
Altra celebre “femminista” fu Olympe de Gouges che iniziò a organizzare gruppi di donne e a pubblicare romanzi nei quali affrontava quella che ora potremmo chiamare la questione femminile.
Nei suoi scritti arrivò a criticare lo stesso Robespierre, tanto che nel 1793 fu ghigliottinata. Nello stesso periodo anche nel Regno Unito iniziarono
a nascere dei primi movimenti per il diritto di voto delle donne, affiancate anche da eminenti pensatori dell’epoca, come il liberale John Stuart Mill.
Primi rumori che portarono, negli anni 30 del 1800, a concedere il diritto di voto alle donne ma solo per le elezioni locali.
Il movimento femminile ha conosciuto, poi, una forte espansione con le suffragette, organizzazioni di donne che lottavano per un suffragio universale reale e non solo maschile e che chiedevano a gran voce una vera emancipazione delle donne col riconoscimento del loro lavoro senza più considerarlo di serie b o c.
In Italia questi movimenti furono più lenti e si svilupparono soprattutto agli inizi del ‘900 fra la borghesia alla quale, solo successivamente, si aggiunsero ambienti cattolici e socialisti.
L’avvento del fascismo congelò ogni cosa e solo nel 1945 finalmente anche in Italia il diritto di voto venne esteso a chiunque, uomo o donna,
avesse compiuto i 21 anni di età.
Cosa è successo poi? Le donne potevano votare e avere voce in capitolo nelle questioni della società esprimendo la loro opinione in cabina elettorale, ma le discriminazioni erano ancora tante. In Italia lo stesso ordinamento giuridico privilegiava la parte maschile della famiglia, lasciando ai mariti l’ultima parola sulle scelte più importanti.
Per gran parte del ‘900 alcune professioni, come l’accesso in magistratura, era negato al “gentil sesso”.
Lo stesso delitto d’onore era espressione della diversità di trattamento fra un uomo e una donna, visto che era previsto unilateralmente e sempre a scapito della parte femminile.
Dobbiamo aspettare il 1981 perché una simile pratica indecente venga
abrogata. Sullo stesso piano di indecenza giuridica, e non solo, vi era il matrimonio riparatore.
Se una donna veniva violentata il reato era estinto se l’aggressore la
sposava non lasciandola nubile e non più illibata, come se il non essere più “pura” fosse l’unico vero problema. La stessa norma che ha cancellato il delitto d’onore elimina per sempre dal nostro ordinamento quest’orribile pratica.
Ma ovviamente perché uno Stato possa dirsi civile non basta che tutti possano votare, che un’aggressione sia considerata tale a prescindere da chi la commette e che una violenza sia punita sempre.
Sono aspetti importantissimi e che, sicuramente, fanno la
differenza fra l’essere un barbaro e l’essere civile e rispettoso dell’altrui persona, uomo o donna che sia. Ma questo non basta. Perché una donna sia sullo stesso piano di un uomo deve poter lavorare e deve essere messa nelle condizioni di farlo.
Questo vuol dire ricevere uno stipendio proporzionato a competenze e ruolo, ritrovare il proprio posto di lavoro rientrata da una maternità e non costretta a firmare dimissioni in bianco il giorno dell’assunzione o a un colloquio sentirsi domandare se si è fidanzate, sposate, se si hanno o se si vogliono avere figli.
Discriminazioni, queste, che non possono essere eliminate solo attraverso delle leggi che, comunque, sono necessarie. Ciò che deve cambiare è la mentalità di tutti noi e perché ciò avvenga è necessario educare alla parità promuovendo soprattutto la cultura.
Perché parità di genere non si confonda più con una contrapposizione fra i due sessi ma diventi una alleanza di cittadini per un futuro migliore.