di Magali Prunai

Come si va a scuola con il Coronavirus in circolazione? Semplice, non ci si va. È la scuola che va a casa degli studenti e non gli studenti a recarsi fisicamente nelle aule. Semplice, no?

No, non è poi così semplice. Docenti di ogni ordine e grado e di ogni età hanno dovuto imparare, in pochi giorni, a usare uno strumento d’insegnamento completamente diverso dal solito: il computer. Studenti e professori, muniti di webcam e buone connessioni a internet, continuano a incontrarsi virtualmente in questa scuola alternativa e d’emergenza. Si spiega, si interroga, si tampona come si può il tempo perso e che, inevitabilmente, si perderà. Si chiacchiera, come si è sempre fatto quando si era tutti insieme nella classe fisica. Ed è così che un’insegnate di una scuola media di Bergamo ha raccontato come, durante un momento di svago, i ragazzi abbiano iniziato a raccontare di un nonno, di una madre o di un padre, portati via da un’ambulanza o a letto con la febbre, la tosse e senza che nessuno possa avvicinarsi a quella stanza. Il carico emotivo, per tutti, è ad elevata intensità e non sarà facile “dopo”, quando ci sarà un dopo, durante la tanto attesa fase 2, 3 o 4, scaricare questo peso e tornare “normali”. In molti dicono che questa situazione ci sta cambiando, chi in meglio, chi in peggio. È vero, non saremo più le persone di prima. O, per lo meno, molti di noi, si riaffacceranno al mondo esterno con occhi diversi.

Negli ultimi tempi si è paragonata questa pandemia a una situazione bellica. La nostra mente corre subito a quella che consideriamo la guerra più recente e che ci ha toccati di più, la seconda guerra mondiale, o a tutte quelle guerre e guerriglie che da allora non hanno mai smesso di affliggere il mondo intero.

Eppure non sono i numeri dei morti, quelle persone che ogni giorno riduciamo a un mero numeretto senza pensare, con profondo cinismo ed egoismo, che stiamo parlando di gente che fino a poco prima parlava, rideva, viveva con tutta una famiglia che non è potuta stargli accanto nel momento più tragico, e non sono neanche le restrizioni che sopportiamo stoicamente a farci pensare a una vera e propria guerra. Non siamo sotto continui bombardamenti e quando usciamo per fare la fila al supermercato non viviamo con la costante paura di tornare a casa malati, infetti, cadaveri che camminano e involontari untori.

In tempo di guerra, quando si esce con la tessera per il pane e una moneta che oggi vale 1 e domani -1, non abbiamo la certezza di non saltare su una bomba, di non assistere a un rastrellamento, a una fucilazione sommaria, di essere deportati senza un motivo. Nessuno ci nega il cibo, la pizza a domicilio o addirittura il gelato o la brioche col cappuccino. Alimenti di lusso e impensabili in una Italia dilaniata dalle bombe nel ’44 o, per non andare troppo lontani nel tempo, in una Siria dei giorni nostri. Dobbiamo stare a casa, è vero, ma un conto è non uscire per impedire a un virus di continuare a passeggiare da un corpo all’altro e un conto è un coprifuoco, come quello attualmente adottato dalla Francia, con orari in cui è previsto uscire, fare determinate attività e orari in cui non è proprio permesso mettere il naso fuori dalla porta. In Francia, infatti, a partire dalle 8.00 non è possibile uscire a correre e alle 22.00, alle 20.00 in Costa Azzurra, è d’obbligo stare confinati nelle proprie abitazioni (per lo meno fino all’11 maggio, data in cui il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, ha dichiarato che inizierà la fase 2, almeno teoricamente). In Italia discutiamo ancora se i cosiddetti “runner” possano o meno sgranchirsi le gambe o cosa i cani debbano usare come toilette, quando e per quanto tempo.

La scuola non si fa in ricoveri antiaerei, non si scappa dalle aule ogni volta che una sirena annuncia l’imminente pericolo, nessuno è in trincea a sparare contro un altro essere umano che gli è stato detto essere suo nemico.

La scuola, ciononostante, si affronta con difficoltà in questa situazione. La affrontano con difficoltà le 4 figlie dell’operaio egiziano rimasto disoccupato che vive in 27 metri quadri nella periferia milanese, intervistato al telegiornale, che devono arrangiarsi chi in bagno, chi sul tavolo da pranzo per fare i compiti e seguire le lezioni grazie a dei tablet forniti da associazioni di volontariato. La affronta male chi aveva appena iniziato la prima elementare, che a settembre dovrà recuperare un anno intero e, intanto, andare avanti col programma per non rimanere indietro.

La affronta male chi quest’anno farà l’esame di maturità, privato di tutti quei bei momenti che ti fanno sempre ripensare con nostalgia agli anni della scuola. E come sempre il divario da chi ha una famiglia economicamente più stabile da quella con più difficoltà aumenta. Chi può permettersi computer, tablet, telefoni cellulari più sofisticati meglio seguirà le lezioni, meglio approfondirà e lavorerà. Ma c’è chi non ha neanche una connessione a internet.

Ma quello che forse può farci veramente pensare a una guerra sono le condizioni di umana precarietà. Condizioni mentali che, finito il secondo conflitto mondiale, hanno lasciato il posto alla rinascita, alla ricostruzione e al cambiamento. A differenza di quanto accadde alla fine della prima guerra mondiale. Chi si affacciava alla vita alla fine della guerra trovava un modo per rinascere e ripartire. Ma chi era stato in guerra, che aveva combatturo, era stato prigioniero, chi fino al giorno prima di essere spedito al fronte aveva vissuto nell’ozio più totale, come ci racconta Roth ne “La cripta dei cappuccini”, si trasformò in un corpo vuoto, morto al suo interno, che camminava per un mondo che non riconosceva più. Troppo legati al vecchio per capire il nuovo, troppo giovani ancora  per lasciare il posto a chi verrà dopo.

E quando inizierà la fase 2, o quella successiva ancora, chi si è ritrovato a stravolgere la sua vita completamente dovrà cambiarla ancora e non è detto che saremo tutti in grado di reagire. Questa è la vera guerra che ognuno di noi sta vivendo in questo particolare periodo storico.

Un giorno, non troppo lontano da oggi, saremo un capitolo dei libri di storia. Si scriveranno saggi, approfondimenti e verremo studiati. E tutto ciò sarà possibile, come è sempre stato possibile alla fine di un periodo nefasto, perché prima o poi la quiete torna, sempre.

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