di Magali Prunai
“Non è colpa mia!” Quante volte lo abbiamo detto fin da piccoli per paura di un rimprovero e spaventati dalle conseguenze inevitabili di una qualche marachella combinata.
Finché ad avere paura delle conseguenze delle proprie azioni è un bambino possiamo comprenderlo facilmente ed è proprio in quel momento che entra in gioco la funzione educatrice del genitore: insegnare a un bambino che ogni scelta che compiamo, consapevolmente o meno, ragionata o meno, ha sempre, inesorabilmente, una conseguenza.
Quali ripercussioni possono avere su un bambino le sue scelte, forse ingenue e spesso prese per testardaggine nei confronti di mamma e papà? Un brutto voto a scuola, qualche pianto dopo una sgridata. Sicuramente la scelta di strappare una pagina di diario per non far vedere una nota non avrà ripercussioni sull’economia mondiale, ma sarebbe comunque opportuno analizzare perché il proprio figlio o uno studente ha così tanto timore di far sapere di essere stato rimproverato, indice forse di eccessiva ansia o paura che non dovrebbero appartenere a nessuno, figuriamoci a un minore. Come troppa spavalderia, nel non curarsi dei propri risultati o azioni, già a sei o sette anni, è indice di una falla nel sistema educativo tanto familiare quanto scolastico e sociale.
Ma passata l’età dell’infanzia, diventati ormai adolescenti o adulti si continua a negare la propria responsabilità. È sempre frutto di mancanze educative? A undici-dodici anni forse, già a diciotto anni dovremmo essere in grado, un po’ tutti, di distinguere il buono dal cattivo; il bene dal male; il giusto dallo sbagliato. Non farlo vuol dire esserne consapevoli e ignorarlo appositamente. E perché lo si fa allora? Per una qualche malattia mentale? Immaturità? Mancanza di voglia di assumersi responsabilità, oneri e onori?
Diceva Tocqueville, colui che possiamo considerare il padre della sociologia, che la Democrazia è l’espressione dei popoli che mirano a una progressiva eguaglianza, uguaglianza che si esprime e raggiunge, fra gli atri, attraverso la partecipazione alla vita quotidiana della propria nazione. Il voto, la libertà e il diritto di voto, passando da un suffragio parziale a uno universale, è la massima espressione della partecipazione dell’individuo e della sua presa di coscienza e assunzione di responsabilità.
Alcuni saggi di recente pubblicazione evidenziano come il male dell’uomo moderno sia l’assoluta mancanza di responsabilità personale, un progressivo e continuo tentativo di scaricare sulla società le nostre azioni, rifiutandoci in ogni modo di esserne i principali artefici. La paura del rimprovero di mamma e papà lascia il posto a un’idea di “superuomo” che abbiamo costruito intorno a noi stessi, un “superuomo” invincibile, sempre nel giusto e se caso mai dovesse sbagliare non lo fa per incompetenza, inadeguatezza, scarsa capacità di ragionamento, ma perché qualcun altro lo ha indotto all’errore. Non vi è più la paura del rimprovero, perché se anche dovesse arrivare verrebbe registrato come ingiusto. Chi ci rimprovera sbaglia, e lo fa perché solo noi abbiamo la verità in tasca. Sono gli altri ad essere in fallo, anche se in 100 ci diranno che stiamo commettendo un errore saremo sempre dell’idea, ottusi e ciechi più che mai, che lo sbaglio è loro e non nostro. Un senso civico inesistente, l’incapacità, volontaria o meno, di confrontare, tutelare e proteggere la collettività attraverso anche le singole azioni. Non gettare una carta per terra, per esempio. è dimostrare responsabilità e rispetto per l’ambiente, la società e noi stessi, come non andare a lavoro con la febbre a 39.
Ma al centro dell’uomo moderno vive solo “io”, un “io”sul quale sono concentrate tutte le sue attenzioni e le preoccupazioni. Le scelte sono motivate per il benessere, spesso solo momentaneo, di quell’ “io” e poco importa se confliggono con l’interesse della società che lo circonda. Non importa perché non si è, o non si vuole essere, consapevoli del vivere in comunità, dove gli interessi di uno sono gli interessi di tutti. Ma l’uomo moderno è concentrato solo sulla sua singolarità e non comprende come mai chi vive intorno a lui non converga tutta la sua attenzione su quello stesso “io”. Eppure “io” sono il centro del mondo e se qualcosa non funziona è perché tutti gli altri non pensano a me, ma ad altro. È, dunque, colpa degli altri e non mia se il mio progetto non è andato a buon fine, non perché non ho tenuto conto dei miliardi di persone che vivono con me su questa terra, ma perché questi miliardi si sono scordati che “io” ho la precedenza su tutti loro.
L’uomo moderno è sordo, non è interessato e non ascolta tutti gli altri “io” che popolano questa terra, perché non comprende le singolarità altrui e non vuole farlo. Non le trova necessarie, se non sono utili, in quel particolare istante, al benessere del suo “io”. Gli altri esistono perché “io” decido che possono girare intorno alla mia individualità e possono farlo solo nel modo che “io” preferisco, come mi è più comodo in quel determinato momento. Se poi “io” non ho più la necessità di quella singolarità allora la abbandono da qualche parte, salvo poi, davanti a eventuali rimostranze, negare ogni tipo di comportamento individualista. Perché, comunque, “non è colpa mia!”
E pensando solo all’ “io” vittima della società e non delle proprie scelte, abbiamo permesso che il nostro pianeta, l’unico che abbiamo, diventasse un immondezzaio. Ma “non è colpa mia”, sono stati tutti gli altri.
E così abbiamo permesso l’inquinamento, la natura impazzita, un mondo prossimo alla distruzione. C’è chi dice che meritiamo l’estinzione perché non siamo più degni di questo pianeta. Io penso che tutti noi, sia il signor “io” che tutti gli altri, dovremmo fare uno se non due passi indetro e tornare a scoprire le meraviglie che ci circondano, tornare a conoscere l’altro in modo genuino, con calma, senza correre da una parte all’altra del globo senza una reale destinazione. Il nostro punto di arrivo deve essere il benessere generale, perché solo attraverso una collettività realizzata e felice “io” sarà sereno e realizzato allo stesso modo e non nella perenne ricerca di un capro espiatorio alle proprie mancanze.