La COP25 si è appena conclusa dopo un estensione di 2 due giorni rispetto alla conclusione fissata.
In ballo era l’implementazione completa dell’accordo di Parigi.
In particolare l’implementazione dell’articolo 6, nei suoi paragrafi 6.2, 6.4 e 6.8, avrebbe dovuto determinare il passaggio ad un nuovo meccanismo per i crediti di carbonio oltre il protocollo di Kyoto: si sarebbe dovuto passare dal vigente clean development mechanism (CMD) che prevede sopratutto uno scambio dei crediti di carbonio bilaterale tra stati, ad un sustainable mechanism (SM) in cui lo scambio sarebbe stato regolato da un organo ad hoc e le pratiche di riduzioni delle emissioni avrebbero seguito degli standard e sarebbero state monitorate. Inoltre secondo il paragrafo 6.4 ogni stato avrebbe dovuto garantire degli incentivi al settore privato affinchè contribuisse alla riduzione delle emissioni.
Inoltre in discussione il Warsawa International Mechanism for Loss&Damage, nella sua revisione soprattutto per quanto riguarda la mobilizzazione finanziaria per il loss&damage, con l’idea di creare oltre all’Adaptation Fund anche un altro fondo chiamato “braccio di implementazione” per far fronte ai danni causati dalla crisi climatica.
Ci si aspettava da questa COP anche una dichiarata revisione degli NDCs a seguito dei report dell’IPCC e l’adozione di tempistiche comuni per la loro revisione.
Il tutto regolato da qui meccanismi di trasparenza e flessibilità che avrebbero armonizzato i contributi differenti dei vari paesi realizzando il principio di responsabilità comuni e differenziate, sancito sempre dal Paris Agreement
Ma cosa è successo in queste due settimane e più di negoziati?
A fronte di un anno di mobilitazione della società civile, dei giovani, delle associazioni, a fronte degli appelli accorati degli scienziati dell’IPCC che si dall’apertura dei negoziati e alla presentazione dei rapporti si sono mostrati disposti ad ogni dialogo con le parti politiche per costruire insieme le misure di adattamento e mitigazione, le negoziazioni sono state un disastro.
Sin dalla prima settimana in cui il ritmo è stato pigro, svogliato, inconcludente…un approccio routinario che mancava di quello che in inglese si sarebbe chiamato “commitment” ossia dedizione reale alla causa.
La speranza nella seconda settimana è stata riposta nei ministri, nei loro dialogo di Alto livello: ma forse qui, proprio qui si nascondevano gli ostacoli maggiori.
Come si è conclusa questa COP?
Proprio nei livelli governativi, laddove la parte tecnica può venir surclassata da quella politica, si nascondevano le insidie dei veti. Che hanno pesato.
Lo si è visto sin dalla prima bozza di testo presentata il 12 dicembre alla conclusione prevista per i lavori: le prime bozze hanno ricevuto critiche sie dalle parti che dalle costituenti degli osservatori non statali. Dai documenti in decisione, mancavano tutti i riferimenti chiave al mercato nell’articolo 6, la revisione finanziaria del WIM i common time frames e addirittura il meccanismi di flessibilità e trasparenza erano stati già rimandati alla prossima sessione durante plenaria del SBSTA.
Ma oltre queste mancanze tecniche quello che è mancato già dalle prime bozze sono stati i riferimenti alla giustizia climatica e alla scienza: nonostante a Katowice si fosse ottenuta la Dichiarazione alla giusta transizione e nonostante uno dei pochi risultati della prima settimana fossero stati l’adozione della piattaforma della conoscenza indigena e il gender action plan, la bozza sull’articolo 6 e in generale il discorso della presidenza – non hanno tenuto conto ne dei diritti delle popolazioni indigene, ne delle donne, ne dei lavoratori – ossia un documento descrittivo di un mercato molto simile a quello di Kyoto esclusivamente procedurale senza alcuna componente sociale.
La parola “ambizione” ha subito il veto degli US, cosiccome il riferimento ai report IPCC questa volta da parte sopratutto dell’Arabia Saudita.
Le critiche sulla debolezza dell’accordo durante la prima plenaria informale di venerdì sono state recepite dalla presidenza, che con grande coraggio e disperata speranza ha fatto di tutto per prolungare le negoziazioni sino ad oggi , ottenendo però solo flebili riferimenti ai diritti umani, indigeni e delle donne, nonchè un “invito” all’alta ambizione.
Il WIM è stato rivisto ma i dettagli finanziari ancora da verificare.
Articolo 6….bocciato e rimandato a novembre a Glasgow.
E ora?
Ora bisognerà gestire una situazione possibilmente molto caotica.
Alcuni paesi hanno già deciso di andare oltre i processi delle COP, aderendo ai “Principi di San Jose”, un manifesto di alta ambizione che ad oggi ha raccolto 29 paesi aderenti tra cui l’Italia.
La società civile non farà attendere le sue reazioni- e probabilmente agirà localmente al di là di quanto i propri governi decidano di fare a livello internazionale: questo è stato già dimostrato durante la finta plenaria organizzata da CAN network durante il 13 dicembre e le manifestazioni di FFF e XR.
Citando Wiston Churchill che diceva “un successo non è mai definitivo, ed un fallimento non è mai fatale, il coraggio sta nel continuare..” e prepariamoci alla prossima COP e alla pre-COP che sarà in Italia. Dovremo non deludere.
La grande opportunità a mio avviso sta anche ora nella gente, nelle persone al di là dei governi: il cambiamento e la transizione oltre gli accordi la possono fare i popoli, i giovani, le donne che hanno realmente a cuore le sorti del pianeta.
La speranza è una risorsa che si rinnova, che risorge dopo un fallimento, come un’energia rinnovabile (Al Gore) e questa energia ora è in mano alla gente.
People have the power (Patty Smith)