di Andreas Massacra
Questo breve articolo si propone di dare una lettura dell’Enciclica “Laudato Sii“ di Papa Francesco, alla luce di alcune delle caratteristiche proprie della riflessione teologica, ed in particolare della collocazione della teologia quasi nelle scienze pratiche, in ambiente francescano, con speciale considerazione delle riflessioni del Doctor Subtilis, Giovanni Duns Scoto.
Con questo non si intende sostenere che l’ossatura dell’enciclica sia in diretto collegamento con quella concezione teologica ma si invita ad inquadrare una delle encicliche che ha sicuramente avuto più diffusione negli ultimi anni in un quadro sapienziale più ampio rispetto ad un generale ambientalismo mosso da sentimento di cura per il creato. Questo articolo vorrebbe infine invitare il lettore a riconsiderare la teologia, non più (non lo è da tanto) come sapere in grado di spiegare il mondo, come avrebbe detto Aristotele una scienza teoretica, ma come un sapere pratico, una scienza pratica aristotelicamente parlando, che nei fini più che nelle premesse può trovare massima condivisione tra credenti e non. Per prima cosa quindi verrà effettuata una breve ricognizione delle argometazioni scotiste che portarono il filosofo e teologo medievale a far afferire la teologia quasi più alla volontà che all’intelletto, collegandola alle scienze pratiche; quindi si cercherà di vedere questa “praticità” all’interno della Laudato sii; ed infine (ma contemporaneamente) di mostrare come nulla vieti alle conclusioni della “Laudato sii”di essere condivise.
La riflessione teologica si innesta sulle polemiche nate nel XIII secolo videro impegnati filosofi e teologi riguardo ai rapporti tra queste due discipline, contesa che portò ala condanna di alcune proposizioni arisotieliche e al tramonto dell’averroismo. Scoto si inserisce in questo dibattito e cerca di ritagliare lo spazio della teologia staccandola dalla filosofia, che rimane neutrale sulle questioni soprannaturali.
L’uomo infatti trova il compimento, la realizzazione, della propria natura solo grazie ad un intervento soprannaturale. Il soprannaturale è l’infinito ed in senso stretto non è altro che Dio come principio infinito, le cui azioni non sono costrette alle leggi da lui stesso prescritte alle nature create. Libertà e contingenza dunque possono sorgere senza che vengano implicate le imperfzioni della natura creata. La resurrezione della carne è il fine naturale, raggiunto soprannaturalmente, ossia tramite un agente soprannaturale, dalla nostra natura. Questa soprannatutalità definisce un rapporto di libertà fra due nature: una potenza recettrice che accoglie la sua forma da una libera decisione di un pricipio attivo superiore. L’agente soprannaturale (Dio) consente volontariamente a rendersi finito per darsi liberamente al finito. La natura dell’intelletto umano è mossa liberamente e per mezzo della sua propria volontà. La carità, la resurrezione, la beatitudine (in questo senso sono sinonimi) sono il fine naturale dell’uomo nel momento in cui la sua natura è libera di ricevere la grazia e di accettarla. Il fine della sua natura è dunque il fine della sua libertà. Quindi il compimento della natura dell’uomo è un incontro di due libertà.
La natura spirituale dell’uomo vi perviene liberamente in modo contingente implicando però la necessità soprannaturale della rivelazione che è evento storico portatore di grazia. Questo per quanto concerne il versante umano, poichè ciò che per l’uomo è necessità di bisogno per Dio è necessità di convenienza derivata dalla sua libera carità: una prima grazia è la libera creazione di creature libere, una seconda grazia, sempre libera, è la rivelazione. Essendo il fine dell’uomo un incontro di libertà e volontà ecco che diventa centrale la prassi e dunque la pratica teologale: l’uomo deve infatti sapere in che modo raggiungere il fine, quali atti sono necessari e in che misura essi siano sufficienti. Dalla rivelazione si evince che la beatitudine è ricevuta come merito non necessariamente per i nostri atti ma data da Dio che concepisce i nostri atti come meritori. Dunque le nostre pratiche sono meritorie di salvezza solo quando sono stabilite da due libertà quella dell’uomo che agisce con libero arbitrio e quella divina che accetta tali pratiche. L’atto è dunque sollecito della libertà divina. Il peccato è ciò che ha fatto perdere all’uomo la possibilità di una conoscenza intuitiva del soprannaturale . La rivelazione permette all’uomo di agire in vista del suo fine. La beatitudine teologale dunque non coinvolge solo l’intelletto ma anche la prassi essendo eminentemente legata a volontà e libertà. La teologia è dunque scienza pratica o teoretica? Il fine della Legge, Vecchia e Nuova, ossia della rivelazione è la carità e la carità si compie mediante azioni e non mediante pensieri. La teologia si configura dunque come scienza pratica per diversi motivi: perchè dipende dalla volontà cioè è sapere pratico perchè presenta alla volotà qualcosa su cui decidere; perchè può essere modulata da colui che è in potere di decidere (la conformità alla retta ragione rende l’azione virtuosa). Risulta prratico ogni sapere che si estende fino al volere in conformità alla retta ragione che è quella che accetta e comprende la necessità del soprannaturale, della rivelazione, per completare tanto la natura corporea tanto quella intellettiva. Se l’atto dell’intelletto è teoretico, la scienza che si estende all’oggetto dell’intellezione,che è il fine della natura umana, per mezzo della volontà è pratica. La carità è una prassi anche se la volontà non comanda alcun altro atto. La ragion pratica, che è una relazione normativa dell’intelletto alla volontà e che conosce una normatività che la precede, ha per oggetto la carità. Per il teologo, la teologia è una scienza pratica, in virtù della storicità e contingenza della rivelazione, che ha in Dio l’oggetto del retto volere e della carità. La teologia come prassi permette ad un intelletto finito di conoscere la rettitudine dell’agire come condizione di una corretta volizione. Lo scopo formale, ossia delle preposizioni teologiche è il volere normato dalla conoscenza della verità più che la conoscenza di Dio in quanto ente. La teologia è dunque una educazione dell’azione.
Veniamo alla seconda parte del nostro breve articolo. Già dall’indice della “Laudato sii” si vede come questa sia una Enciclica eminentemente pratica, ossia rivolta ad un retto rapporto, che si concretizza in azioni, tra l’uomo e il resto del creato entrambi frutto della liberalità divina. Grosso modo l’enciclica nei suoi se capitoli, può essere suddivisa in due parti la prima descrittiva, in cui lucidamente Francesco descrive lo status attuale della “Casa Comune” e una seconda parte prescrittiva, o normativa, che indica la retta prassi alla luce di quanto contenuto nella rivleazione, ossia, per riprendere i termini del paragrafo precedente, la ragion pratica. Le due parti sono legate, presentando le violazioni verso l’ambiente e le persone dell’attuale sistema di sviluppo, può invitare successivamente nei capitoli IV, V e VI a sviluppare una ragion pratica differente e a conformare la nostra volontà alla retta ragione in vista dell’azione virtuosa sul creato. L’ecologia integrale di Francesco, prescrive, invitandolo, all’uomo (credente e non) ad un comportamento differente che per il cristiano è giustificato ante litteram dal precetto divino e posteriormente dal fine, laddove per il non credente è la bontà del fine stessa a determinare una condivisione delle argomentazioni e degli inviti pratici presenti nell’encilcica. Del resto, la spietata e realistica critica dello status attuale del mondo, esattamente nei termini in cui il Pontefice la pone, non è patrimonio esclusivo dei credenti. Quello che Francesco conduce, e lo fa esplicitamente nel capitolo V, è un invito politico, e la politica è un sapere per sua stessa natura che si sviluppa nella prassi. La prassi dunque ha la centralità del discorso guidata da una normatività che le sta a monte. A monte perchè il creato è atto antecedente l’uomo e frutto della liberalità, o per meglio dire della carità divina, quella stessa da cui deriva la grazia e la rivelazione teologale. “Curare e custodire l’ambiente” rientra a pieno titolo in quella categoria di atti meritori tramite i quali, per usare il linguaggio del paragrafo precedente, l’uomo riceve da un agente soprannaturale il completamento della sua natura finita. La premessa normativa del Capitolo II “Il Vangelo della Creazione” è la base su cui si sviluppano i capitoli pù propriamente pratici ossia il V “Alcune linee di orientameno e di azione” e VI “Educazione e spiritualità ecologica” . La teologia che dunque sottende la “Laudato sii” , secondo la lettura che ne abbiamo dato (senza pretesa che corrisponda a quella nelle intenzioni di Francesco) è una teologia che più che spiegare il mondo in sè è una scienza pratica che guida la volontà dell’uomo che si dispiega in politiche economiche, ambientali ed ecologiche. Nell’ottica cristiana, il vilipendio del creato è peccato che impedisce il raggoiungimento del fine naturale dell’uomo che è invece l’oggetto della teologia come prassi.
La forza di questa enciclica sta nel fatto che le premesse di critica del sistema attuale e i precetti comportamentali per modificarlo sono ampiamente condivisibili anche da chi non ha la normativa evangelica alle spalle. I dati scientifici sullo stato del nostro ambiente spingono continuamente per una modifica della condotta votata alla parsimonia e alla decrescita dello sfruttamento delle risorse planetarie. Le motivazioni etiche del testo sono condivisibili anche dai laici: Uguaglianza, Libertà e Fraternità non sono prerogativa solanto del messaggio evangelico (le battaglie sociali laiche dalla Rivoluzione Francese, come sottolinea l’enciclica stessa, in poi ne sono un esempio). A nostro modo di vedere è proprio la natura pratica della teologia che sta a fondamento dell’encilcica che la rende così ampiamente condivisibile. L’accento sulla prassi e sui fini, che rende ancor più ecumenica l’azione cristiana e, limitatamente alla tematica in oggetto, la sua dottrina, è, secondo la lettura che ne abbiamo dato (che è solo una interpretazione senza pretese euristiche), l’eredità di sottobosco ma fruttifera della teologia francescana medievale.
Bibliografia